È una scena grottesca quella rappresentata qualche giorno fa all’università di Lérida, nell’entroterra catalano, dove è intervenuta un’intera squadra di polizia in assetto antisommossa per arrestare non un terrorista pluriomicida ma un rapper: Pablo Hasél, colpevole di aver attaccato nei suoi testi e sui social media la casa regnante e il sistema monarchico spagnolo, guadagnandosi così – per un cumulo di reati – la pena di nove mesi di reclusione.

A molti, compreso chi scrive, il caso di Hasél sembra particolarmente grave, perché va ad intaccare le sfere della libertà di pensiero e di espressione in nome di un delitto di lesa maestà assurdo ed anacronistico. In terra iberica si è già messa in moto la macchina della solidarietà, con un gran numero di artisti e comuni cittadini che hanno espresso il loro sostegno all’artista catalano. Nelle ultime ore, pare che sia arrivata un’apertura da parte del governo di Madrid, dettosi disponibile a rivedere la cosiddetta “legge bavaglio” in modo da evitare – da ora in poi – che delle semplici critiche al potere costituito, per quanto aspre, aprano le porte del carcere a chi ne è l’autore.

Pablo non è il primo rapper catalano ad aver avuto problemi legali: solo per citarne un altro, ha fatto discutere anche il caso di Valtonyc che, condannato per le stesse accuse, si è autoesiliato in Belgio mentre sul suo capo pende una richiesta di estradizione da parte dei magistrati iberici.

Certo, potremmo essere tentati di considerare ciò che accade in Spagna come qualcosa che non ci riguarda, rigurgito di una monarchia figlia del franchismo e travolta dalla corruzione, che prova a riprendersi con le manette il rispetto che ha perso con gli scandali e l’incapacità di leggere il presente. Potremmo rivedere, in quello che sta accadendo in questi giorni, quanto successe quasi 40 anni fa negli Stati Uniti, quando i testi espliciti dei rapper diventarono un caso nazionale, e le autorità più alte – inorridite e scandalizzate – presero provvedimenti contro il “Fuck The Police” urlato dagli Nwa.

E già farebbe impressione così, sovrapponendo l’immagine azzimata e antica di Reagan a quella del mondo di oggi, che avremmo immaginato più libero e pronto ad accettare le critiche, sebbene a volte estreme, dei rapper. Ma, purtroppo, non è solo quello. Le sbarre che chiudono Pablo Hasél ci sono più vicine di quanto spesso pensiamo.

Nella nostra Sardegna è infatti in corso il processo al rapper nuorese Bakis Beks, e l’oggetto del contendere sono proprio i suoi testi che criticano duramente il militarismo e l’occupazione armata dell’isola con basi ed esercitazioni terrestri e marittime, un’opposizione peraltro condivisa da buona parte della popolazione locale. Per quanto Bakis rifiuti con umiltà il paragone con Pablo Hasél, che ha costruito tutta la sua espressione sulla disobbedienza e lo scontro, è difficile non tracciare un paragone tra le due storie. E, di sicuro, anche ciò che sta succedendo a Nuoro merita attenzione e solidarietà, anche perché – incredibile ma vero – ad essere denunciato non è stato solo l’artista ma anche una parte del pubblico presente ad un suo concerto, “colpevole” di aver fatto il coro delle liriche incriminate. Quindi, se andate al concerto di un rapper controverso, state attenti anche a come muovete le labbra!

Il punto non è essere d’accordo con Pablo Hasél o con Valtonyc o con Bakis Beks nelle loro critiche. Si può essere pro Borbone o pro basi militari, oppure si può essere contrari con toni più sfumati e “accettabili”. Il problema è dover affrontare ancora questo problema nel 2021, e rischiare di essere condannati per aver scritto delle rime o addirittura per essere andati a un concerto dove quelle rime vengono cantate. L’America di Reagan, vecchia, conservatrice e paternalista, approverebbe di sicuro.

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