Quasi sempre chiusi in casa per salvaguardare la propria incolumità, spesso lasciati senza assistenza domiciliare. Soli, a lottare contro i disagi del lockdown e della pandemia: questa è la condizione in cui si trovano da quasi un anno le persone con disabilità. Quelle più esposte – per vari motivi – al coronavirus. I problemi gravi sono stati diversi. Per i più giovani, la solitudine amplificata dalla didattica a distanza, perché la scuola è l’unica possibilità di “essere a contatto con i ragazzi”. Lo testimonia l’incremento della richiesta di sostegno psicologico a distanza per i bambini con disabilità intellettive e con deficit cognitivi, i cui genitori hanno più volte chiesto di “potenziare le terapie”. Poi c’è lo smart working, che fatto in carrozzina in un bilocale abitato da 4 persone diventa “massacrante”. Dopo un anno le cose non sono migliorate, così il vaccino diventa l’unica cosa in cui riporre “speranza e fiducia”. Ilfattoquotidiano.it ha raccolto tre testimonianze di disabili per raccontare la situazione che stanno vivendo:

“Mancando la scuola, la solitudine è la cosa che ha pesato di più”
“Chi convive con la disabilità è abituato a procedere a una velocità diversa, conosce la pazienza e la capacità di adattarsi. Noi siamo da anni, spesso, immersi nella solitudine così come è avvenuto per tutti durante il lockdown”. Anna Claudia Cartoni, romana 58enne, allenatrice di ginnastica artistica, ha insegnato per diversi anni alla facoltà di Scienze motorie (ex Isef) e attualmente lavora part-time per la Federazione Ginnastica d’Italia. Anna Claudia è mamma di Irene, 16 anni, una ragazza con diverse gravissime disabilità: non parla, non cammina e ha una compromissione cognitiva importante. La vita della figlia è raccontata nel libro intitolato “Irene sta carina” (disponibile online e in libreria). Irene frequenta la terza media ed è felice quando può stare in mezzo ai suoi coetanei. Per lei, cosi come per migliaia di alunni disabili, la Dad è stata molto farraginosa e davvero poco funzionale: “La cosa positiva della scuola è la possibilità di essere a contatto con i ragazzi, poiché al di fuori è molto difficile trovare altri spazi di condivisione. La Dad è stata per noi impossibile da seguire. La solitudine dei nostri figli, mancando la scuola, è la cosa che ha pesato di più”, afferma Cartoni. Riuscivano a collegarsi ogni tanto solo per salutare i compagni: “L’insegnante di sostegno ci faceva collegare separatamente e questo è poco utile”.

Inoltre, in contemporanea, Cartoni era in smart working. “Certamente è la prima volta che la scuola si è trovata ad affrontare una situazione del genere – sottolinea – ma occorre pensare alla diversità con un po’ più di creatività e competenza”. Anna Claudia fa delle proposte: “Penso che sia necessario uscire dal concetto che il disabile grave debba seguire ritmi e argomenti come gli altri. Occorre invece pensare a progetti e attività più vicini alle loro realtà specifiche”. Sul vaccino la mamma di Irene si dice “favorevole”, ma teme che non si riesca ad arrivare a “una reale significativa copertura vaccinale di massa”. Cartoni afferma di “non essere mai entrata nel panico da Covid, nonostante Irene abbia già di suo seri problemi respiratori. Forse – conclude – perché sono abituata a vivere nella precarietà della sua salute e cerco di affrontare i problemi quando si presentano e non prima”.

“In alcuni momenti mi sono sentita fragile, insicura e demotivata”
Giulia Pesarini ha 23 anni e vive a Falconara Marittima (Ancona) con i genitori e fratello. È una di quegli studenti che si sono laureati ai tempi del Covid, precisamente in Scienze della comunicazione d’impresa all’Università degli studi di Macerata. A 6 anni le hanno diagnosticato la distrofia facio-scapolo-omerale, che non le permette di camminare e muovere bene molti muscoli del corpo anche se riesce a svolgere, con qualche accorgimento, la maggior parte delle azioni quotidiane in modo autonomo. Nonostante tutto, Pesarini è riuscita a concludere la triennale, un “felice traguardo a cui tenevo molto”. Le difficoltà che ha dovuto affrontare nell’ultimo anno però sono state diverse. “Dal secondo anno di università, con l’aiuto dei miei famigliari e di un assistente personale, ero riuscita a trovare una soluzione che mi permettesse, almeno in parte, di seguire le lezioni da pendolare, visto che l’università dista un’ora da casa mia”. Poi è arrivato il Covid e “ho rivissuto l’insicurezza del mio primo anno: non potersi confrontare con i colleghi, stare sempre davanti allo schermo del pc”. La quarantena “mi ha permesso di concentrami sullo studio”, racconta la 23enne. Però, “sia come persona con disabilità che come studentessa universitaria mi sono sentita in alcuni momenti fragile, insicura e demotivata”.

Il giorno della sua laurea, il 15 ottobre, “alla discussione della tesi hanno potuto assistere due persone”. Ora ha deciso di iscriversi a un corso magistrale all’Università Statale di Milano. Il sogno di trasferirsi in una città più grande, come fanno i suoi coetanei, ha dovuto però fare i conto l’arrivo della seconda ondata: “La paura per il virus e il timore di un nuovo lockdown si aggiungevano a tutte le difficoltà a cui una persona disabile va incontro quando decide di allontanarsi dalla famiglia”. Niente trasferimento a Milano. Pesarini però confida nel vaccino: “Sono speranzosa e fiduciosa che si potranno raggiungere la maggioranza delle persone in un tempo relativamente breve, in modo che si possa tornare a vivere normalmente e io riesca a continuare a pensare al mio futuro”.

“Lavorare da remoto? Uno svantaggio sono gli spazi angusti: siamo in 4 in un bilocale”
Lo smart working al tempo della pandemia è difficile, per tutti. Molto di più per chi deve muoversi con una carrozzina elettronica ingombrante in spazi angusti e alla presenza di altri tre familiari. È l’esperienza di Luciano Ghislotti, 47enne con una malattia neurologica degenerativa. Sposato, con due bambini, vive a a Milano. “Lavoro in un’azienda di informatica da luglio 1994 e la mia passione è il powerchair hockey”, racconta. Ghislotti fa parte di quel 30% di persone con disabilità che ad oggi in Italia ha un lavoro. La situazione nei prossimi mesi è destinata a peggiorare, ma i pochi che hanno una professione lottano comunque contro grandi difficoltà. “Per me la cosa più complessa è poter lavorare bene in presenza della mia famiglia“, spiega Ghislotti. “Siamo chiusi in quattro in un bilocale da diversi mesi – racconta – con mia moglie che lavora utilizzando moltissimo il telefono, un ragazzo di 14 anni che ha fatto l’ultimo anno delle medie e il primo anno di liceo artistico praticamente quasi sempre a casa e una bimba di tre anni a cui serve trovare di continuo delle attività da svolgere”. “Insomma, un bordello incredibile”, che si traduce in “carichi di lavoro a volte massacranti“.

Ghislotti riconosce che l’azienda si è dimostrata sensibile alle sue particolari esigenze: “Aveva già adottato in precedenza modalità di lavoro agile, perciò il passaggio è stato immediato”. Luciano sottolinea che “purtroppo lavorare da casa non è redditizio come in ufficio, sia per motivi logistici sia sul piano delle relazioni con i colleghi. Inoltre – sottolinea – l’utilizzo personale di internet e l’incremento significativo di corrente elettrica aumentano i costi familiari”. Per questo l’attenzione va alla campagna di vaccinazione: ci sono le “titubanze” sugli effetti per chi ha particolari patologie, ma anche la speranza che l’arrivo del vaccino “possa essere risolutivo“. “La mia speranza vince senza alcun dubbio sulla paura. Mi vaccinerò quando sarà possibile”, spiega Ghislotti. Che, in conclusione, chiede alle istituzioni di “fare più attenzione ai bisogni e alle esigenze di milioni di persone disabili e le loro famiglie, nessuno deve essere abbandonato. Mi auguro di uscirne al più presto da questa pandemia che ha provocato morte e povertà, aumentando le disuguaglianze”.

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