Cinquantacinque anni fa l’ex Sant’Uffizio abolì l’indice dei libri proibiti. Si trattò di uno dei primi frutti del Concilio Ecumenico Vaticano II e di quella primavera della Chiesa fortemente voluta da San Paolo VI che aveva condotto con mano ferma e portato in porto la nave di quella straordinaria assemblea fortemente voluta da San Giovanni XXIII.

“Questa Sacra Congregazione per la dottrina della fede – si legge nella notificazione dell’ex Sant’Uffizio del 14 giugno 1966 – dopo aver interrogato il Beatissimo Padre, comunica che l’indice rimane moralmente impegnativo, in quanto ammonisce la coscienza dei cristiani a guardarsi, per una esigenza che scaturisce dallo stesso diritto naturale, da quegli scritti che possono mettere in pericolo la fede e i costumi; ma in pari tempo avverte che esso non ha più forza di legge ecclesiastica con le annesse censure”.

“Pertanto – precisa ancora il testo ufficiale – la Chiesa confida nella matura coscienza dei fedeli, soprattutto degli autori e degli editori cattolici e di coloro che si occupano della educazione dei giovani. Ripone la sua più ferma speranza nella sollecitudine vigile dei singoli ordinari e delle Conferenze episcopali, cui spetta il diritto e il dovere di esaminare e anche di prevenire la pubblicazione di libri nocivi e, qualora si dia il caso, di riprenderne gli autori e di ammonirli”.

Oltre mezzo secolo fa con l’abolizione dell’indice dei libri proibiti si poneva finalmente fine alla censura ecclesiastica. Tutto era nato nel Cinquecento nell’ambito universitario. Furono, infatti, alcuni atenei europei a pubblicare per primi gli elenchi delle letture vietate. Poi il testimone passò nelle mani dei vertici della Chiesa. Il primo a stilare un elenco, nel 1548, fu monsignor Giovanni Della Casa, l’autore del celebre Galateo, che fu arcivescovo di Benevento e nunzio apostolico a Venezia.

Un’idea che fu ripresa e sviluppata durante il Concilio di Trento che doveva arginare la riforma di Martin Lutero. Nel 1559 Paolo IV pubblicò il primo indice dei libri proibiti. Appena tre anni dopo, il 26 febbraio 1562, i padri conciliari tridentini si associarono all’allarme del Papa: “Il numero dei libri sospetti e pericolosi, nei quali si contiene una dottrina impura, da essi diffusa in lungo e in largo, è troppo cresciuto”.

Col passare del tempo l’indice venne puntualmente aggiornato comprendendo nomi autorevoli della letteratura, della scienza, della storia, della filosofia e della religione. Da Cartesio a Thomas Hobbes, da Alexandre Dumas padre e figlio a Gustave Flaubert, da Victor Hugo a Immanuel Kant, da John Locke a Montesquieu, da Blaise Pascal a Spinoza, da Stendhal a Voltaire ed Èmile Zola.

Folta era pure la presenza degli italiani: da Vittorio Alfieri a Cesare Beccaria, da Giordano Bruno a Benedetto Croce, da Gabriele D’Annunzio ad Antonio Fogazzaro, da Ugo Foscolo a Galileo Galilei, da Giovanni Gentile a Giacomo Leopardi, da Niccolò Machiavelli ad Antonio Rosmini, da Girolamo Savonarola ad Alberto Moravia. La censura non risparmiò nemmeno un Papa del Quattrocento, Pio II, per i suoi scritti giovanili.

All’indice, infatti, finirono sia i libri degli eretici, sia le edizioni dei padri della Chiesa e delle scritture, la teologia in volgare, le pubblicazioni oscene, i trattati di magia e di astrologia. E ovviamente le opere vietate stimolarono la curiosità dei lettori. Finì sotto esame dell’ex Sant’Uffizio, nel 1853, perfino La capanna dello zio Tom, ma venne fortunatamente risparmiato dalla censura.

Nel 1966 questo muro crollò definitivamente: “La Sacra Congregazione per la dottrina della fede, secondo lo spirito della lettera apostolica Integrae servandae e dei decreti del Concilio Vaticano II, si pone a piena disposizione, in quanto sia necessario, degli ordinari, per aiutare la loro solerzia nel vagliare le opere pubblicate, nel promuovere la sana cultura in opposizione a quella insidiosa, in stretto contatto con gli istituti e le università ecclesiastiche”.

E ancora: “Qualora, poi comunque rese pubbliche, emergessero dottrine e opinioni contrarie ai principi della fede e della morale e i loro autori, benevolmente invitati a correggerle, non vogliano provvedere, la Santa Sede userà del suo diritto-dovere di riprovare anche pubblicamente tali scritti, per provvedere con proporzionata fermezza al bene delle anime”. Ma la censura era ormai finita e la Chiesa aveva finalmente fatto pace con la modernità. E soprattutto con l’arte.

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