La prima foto è in bianco e nero. Ritrae un ragazzo intento a guardare un punto indefinito dritto davanti a sé. Il suo petto è avvolto nella maglia a strisce verticali dell’Ascoli, la sua faccia è oltremodo seria, di quelle che da un momento all’altro potrebbero anche sciogliersi in una risata contagiosa. Gli altri due scatti catturano lo stesso uomo. Ma mostrano anche i segni che il tempo ha lasciato sul suo volto. I capelli sono ancora più radi, la pelle più rilassata. Solo l’espressione è rimasta la stessa. Ed è sempre in grado di stampare un sorriso sulla faccia di chi la guarda. Perché a quasi 84 anni Carlo Mazzone ha deciso di sbarcare su Twitter. A modo suo.

Qualche foto con i nipoti, con tanto di didascalia “Il bello di essere nonno… e bis nonno!”, uno scatto natalizio, un paio di video dove Totti e Guardiola che parlano di lui. Niente di particolarmente elaborato, ma comunque sufficiente a fargli fare il pieno d’affetto. Perché in trentotto anni vissuti in panchina, Mazzone ha avuto tanti avversari ma nessun nemico. Protagonista di un romanzo popolare, il suo habitat ideale è sempre stata la provincia. Ed è proprio in quegli stati che sembravano condannati all’ombra che “Carletto” è riuscito a far uscire uno spicchio di sole, a centrare imprese che non resteranno scritte nei libri di storia ma nella memoria dei suoi tifosi. Tutto comincia ad Ascoli, in Serie C. Lì Mazzone, professione difensore, trova casa dopo le parentesi con Latina, Roma, Spal e Siena. Ci resta per otto anni. Fino a quando in un derby contro la Sambenedettese si rompe la tibia. Costantino Rozzi lo convoca immediatamente e gli offre la panchina della prima squadra.

“Fu molto sensibile nei miei confronti – racconterà Mazzone – la vita da calciatore era finita e io dovevo lavorare perché avevo moglie e due figli”. È un gesto da buon samaritano. È un gesto che riscriverà la storia calcistica di una cittadina di appena 50mila abitanti. All’inizio degli anni Settanta l’Ascoli di Carletto centra la Serie B. Ma è solo una prima tappa. Perché nel 1974 i bianconeri salgono in A. E conquistano anche un’incredibile salvezza. È in quel momento che Mazzone inizia il suo giro d’Italia. Un’avventura piratesca fatta di qualche successo e di tanti bocconi amari. Carletto getta basi lungo lo stivale ma resta uguale a se stesso. La spontaneità come faro personale ma anche come zavorra. Perché Mazzone cambia panchine ma resta sempre uguale a se stesso. Sembra un personaggio di Aldo Fabrizi, con la calata romana, l’attitudine a storpiare i nomi, le smorfie di disappunto, la gestualità ostentata. Le telecamere lo tengono d’occhio. E spesso lo ritraggono mentre martoria lo zuccotto di lana che gli scalda la testa o mentre mima il gesto di mangiarsi un pugno.

All’inizio della sua carriera un giornalista del Corriere dello Sport gli domanda se la sua squadra riuscirà a pareggiare contro la Juventus. “Magari”, risponde Mazzone. Ma il giornalista non è contento, così rincara la dose: “Pensa che riuscirà a vincere?”, chiede. L’allenatore lo guarda e tira fuori dal suo cilindro un “Seh, magara”. Una frase che diventa tormentone, un’etichetta che gli resterà appiccicata addosso per tutta la carriera. Secondo qualcuno Carletto è una macchietta, una maschera dialettale. E quando ne parlano stanno bene attenti a far tintinnare il più possibile la sfumatura di snobismo contenuta in quelle parole. Mazzone incassa e fa spallucce. Per lui è meglio che a parlare sia il campo. Dove gioca con due punte e un trequartista. Nel 1980 l’Italia fa i conti con lo scandalo scommesse. Mazzone è alla guida del Catanzaro, che porterà addirittura al nono posto in classifica. “Non ho mai vinto lo scudetto sportivo, ma sicuramente quello dell’onestà”, commenterà Mazzone. Alla carriera di allenatore affianca quella di battutista, più o meno involontario.

Nella stagione 1992/1993 il suo Cagliari bussa a San Siro. Deve affrontare il Milan di Capello, una squadra in serie positiva da 49 partite. Davide contro Golia. Eppure il rossoblù resistono bene. Almeno fino a quando Bisoli non decide di atterrare in area Donadoni. Papin trasforma il rigore sotto gli occhi di Mazzone. E il mister commenta: “Difensore scivoloso, difensore pericoloso”. L’anno dopo arriva la chiamata della Roma di Sensi. Ed è molto lontana da quella schiacciasassi che vincerà il titolo otto anni dopo. Mazzone fa il fuoco con la legna che ha a disposizione. E non sempre è un granché. In giallorosso Carletto incontra un ragazzino. Aveva esordito con Boskov e il suo caschetto biondo aveva colpito il mister. Un giorno Sensi chiama l’allenatore e gli dice: “Mi hanno consigliato di prendere Litmanen, che faccio?”. Mazzone si irrigidisce e risponde: “Perché buttare i soldi, abbiamo il ragazzino”. E quel ragazzino si chiama Francesco Totti. E per Carletto diventa quanto di più vicino a un figlio possa esistere. A Roma Mazzone conosce anche la contestazione.

Da parte dei tifosi, ma anche della stampa. Il 27 novembre 1994 si gioca un derby tutto particolare. Sensi elogia pubblicamente la modernità e la freschezza del calcio di Zeman. Che però allena la Lazio. Sono parole che assomigliano molto a uno schiaffo al suo allenatore, al suo calcio pane e salame. Il resto lo fanno i giornali. Ogni giorno pubblicano un confronto fra un giocatore della Roma e uno della Lazio. E vincono sempre i biancocelesti. Mazzone ritaglia tutto e appende quelle pagine allo spogliatoio di Trigoria. “Oggi ho un regalo per voi, guardate come vi trattano i giornali”, dice per tutta la settimana. Alla fine la Roma vince quel derby 3-0 grazie alle reti di Balbo, Cappioli e Fonseca. E una mano anonima verga sul muro del cimitero del Verano la scritta: “Che ve siete persi”. Le frasi del mister continuano a diventare aforisma. “Dicono che gli errori degli arbitri con il tempo se compensano. Allora dico: fate presto perché io sto quasi per anda’ in pensione e sto sempre in rosso”. Anche i suoi scontri con i giornalisti diventano benzina per la Gialappa’s. “Sbatto male perché c’è anche Civolà“, dirà alla Rai, esprimendo il suo disappunto per la presenza di Marco Civoli. Andò peggio al collega Varriale. “Sta attento a come te comporti che me sa che te cacciano. Io ho conoscenze a Roma, sono venuto a sapere che ti stanno per sostituire“, dirà in diretta. La tappa della sua seconda giovinezza è Brescia.

Quando è in Lombardia Mazzone sa che Baggio sta trattando con la Reggina. Ma non è convinto della destinazione. Così chiede a Corioni di intromettersi nella trattativa. Carletto convince il numero 10. Tanto che Baggio farà inserire nel suo contratto la clausola Mazzone. In caso di licenziamento del Mister, lui potrà andare via. Non ce ne sarà mai bisogno. A Brescia il mister rigenera un Guardiola sul viale del tramonto. E dire che il tecnico non voleva lo spagnolo, ma Giunti. Pep, che Mazzone chiama Peppe, non parla mai. Così una volta il mister lo prende in giro: “Ahò, ma te vuoi stare zitto?” E l’ex blaugrana: “Ma come, non ho detto niente!”. Mazzone gongola: “Appunto, ti prendo in giro. Non mi dici niente? Non hai osservazioni da fare?”. Brescia diventa un luogo speciale. Pirlo, che aveva stentato, viene retrocesso regista per farlo coesistere con Baggio. E sarà la trovata che cambierà due carriere: quella del centrocampista e quella del suo mister. Almeno fino al settembre del 2001, quando si gioca il derby con l’Atalanta. Il Brescia chiude il primo tempo sotto 1-3. I tifosi nerazzurri prendono di mira Mazzone per tutto il match. Solo che Baggio segna il gol del 2-3. “Se famo er terzo vengo sotto ‘a curva”, giura il mister. E così sarà. Il Divin Codino illumina su punizione e Carletto corre per 50 metri con il pugno alzato e la bocca che si muove frenetica al grido “li mortacci vostra”. “Non mi sono mai pentito, lo rifarei”, ha detto Mazzone. Ed è vero. Qualche anno dopo dei tifosi atalantini lo incontrano in riva al mare. E gli chiedono scusa. Una corsa entrata nella leggenda ma che rischia di semplificare quello che Mazzone è stato per il nostro calcio. Perché la sua storia è la storia di tutti noi. Di un Paese che si rialza dalle macerie della guerra e cerca la sua rivincita. “Ho conosciuto la povertà. Ho avuto paura delle bombe in guerra. Tutto quello che è arrivato dopo è stato un regalo. Mi sono divertito. Mi sono tolto tante soddisfazioni”. Benvenuto Carletto. Sarà un piacere leggerti.

Articolo Precedente

Stadio Fiorentina, restauro Franchi unica via. Commisso: ‘Non pago’. Giani: ‘Farlo a Campi? Problema viabilità, ma non decidono i privati’

next
Articolo Successivo

Ti ricordi… Le punizioni di Recoba a Venezia e quell’amore all’incrocio dei pali del Penzo

next