“Naturalmente stiamo prendendo già da altre parti, con Nicola… perché adesso servono cento-centocinquanta mila euro per scaricarli… abbiamo tutto incammellato fermo, che quando foraggiamo cappottiamo, hai capito?”.Per comprendere cosa dice Pino Tursi Prato, l’ex consigliere regionale del Psdi, già condannato per concorso esterno con la ‘ndrangheta, è necessario immergersi nella trasversalità della politica calabrese.

Nicola è Nicola Adamo, l’ex vicepresidente della Regione, uno dei ras del Partito democratico che, nel collegio di Cosenza, alle elezioni politiche del 2018 aveva candidato Giacomo Mancini Junior, nipote omonimo del “Leone socialista” ex segretario del Psi, due volte sindaco, tre volte ministro, e deputato della Repubblica per dieci legislature consecutive dal 1948 al 1992. Suo nipote, invece, è stato eletto due volte alla Camera, con i Ds e con la Rosa nel Pugno, e una volta nominato assessore regionale del Pdl dall’ex governatore Giuseppe Scopelliti. Da sinistra a destra, sponda Forza Italia, per poi ritornare a sinistra passando per Ala, la “stampella” del Pd di Matteo Renzi creata da Denis Verdini. C’è anche il suo nome di nelle intercettazioni finite nel fascicolo dell’inchiesta “Farmabusiness” della Dda di Catanzaro, guidata dal procuratore Nicola Gratteri.

Verdini e il presunto finanziamento per la campagna di Mancini jr – Nelle carte che hanno portato all’arresto del presidente del Consiglio regionale Mimmo Tallini, poi scarcerato dal Riesame, ci sono alcuni atti dell’operazione “Thomas” nell’ambito della quale la guardia di finanza intercetta alcune conversazioni in cui si fa riferimento all’impegno di Verdini per la campagna elettorale di Giacomo Mancini junior. Gli investigatori, in sostanza, chiedono alla Procura di mettere sotto intercettazione il telefono del candidato del Pd. Il loro sospetto è di trovarsi di fronte “un’associazione finalizzata a favorire sia ‘gli amici degli amici’ sia chiunque fosse in grado di fornire un tornaconto, non fosse altro che in termini di voti alle prossime elezioni politiche”. Il motore di tutto è sempre Pino Tursi Prato, “il quale, – si legge in una nota depositata in Procura – sebbene, non rivesta più cariche pubbliche nel panorama della politica regionale calabrese, tuttavia è da considerarsi un prezioso ‘custode’ di tanti segreti, nonché persona di “fiducia” di soggetti gravitanti nell’alveo della scena politica nazionale e regionale, ritenuto ‘interlocutore privilegiato’ di uomini del calibro di Nicola Adamo, ma non solo, anche di Paolo Romeo (già condannato per concorso esterno con la ‘ndrangheta e principale imputato del processo ‘Gotha’ in corso a Reggio Calabria, ndr), Giacomo Mancini Senior (deceduto) e Giacomo Mancini Junior”. Al padre di quest’ultimo, infatti, Tursi Prato spiega “che Verdini ha convocato Giacomo probabilmente per finanziare parte della sua campagna elettorale”. Per gli investigatori, “il finanziamento non è di quelli regolari in quanto non passa per i canali ufficiali ma deve essere ritirato dal candidato a Roma”. “Sa già il plafond, – sono le parole di Tursi Prato – quello gli dà quello che cazzo vuole… Gli ho detto a Giacomé tu gli devi parlare chiaramente (si riferiscono a Verdini), siccome io sono un tuo uomo che viene qua… o no? O come funziona?”.

La replica di Mancini jr: “Mai chiesti contributi e mai convocato da Verdini” – Pubblicata la notizia del presunto finanziamento di Verdini, l’ex candidato del Pd ha replicato duramente smentendo di aver “mai richiesto contributi economici a dirigenti politici, a imprenditori o a chicchessia”. “Né li ho ricevuti. – chiarisce in una lettera pubblicata nei giorni scorsi sul Fatto Quotidiano – Quella campagna elettorale, come tutte quelle che ho affrontato, l’ho pagata con risorse personali. Tutte le spese sono documentate per come da legge. In particolare non sono mai stato convocato e mai sono andato a Roma per richiedere un contributo economico al senatore Denis Verdini. E di conseguenza mai l’ho ricevuto”. Giacomo Mancini Junior smentisce anche il contenuto delle conversazioni intercettate “in modalità spyware dalle quali – scrive la finanza – emergerebbe l’intenzione di Tursi Prato di condurre una campagna elettorale ‘spregiudicata’, porta a porta, con la collaborazione di organizzazioni ‘ndranghetistiche e con un rilevante impegno economico, individuando anche le fonti da cui attingere le risorse economiche necessarie”. “La mia prima dichiarazione da candidato – ricorda Mancini – fu di chiedere solo voti puliti e di rifiutare anche un solo voto non limpido o proveniente dalla criminalità organizzata. E su questa linea, che contraddistingue tutto il mio impegno in politica, ho condotto la campagna elettorale. Che si è conclusa con la nettissima affermazione della candidata del M5s. Come da previsioni”.

La replica del candidato è netta e va detto che, a distanza di due anni, nei suoi confronti la Procura di Catanzaro non ha mai esercitato l’azione penale. Dagli atti pubblici depositati nelle varie inchieste non emerge che Giacomo Mancini sia indagato. Ma di lui si parla nelle intercettazioni finite nelle inchieste “Thomas” e “Farmabusiness”. “Quaranta-cinquantamila euro per coprire tutti i quartieri. Gli zingari a chi votano secondo te? Vanno in una famiglia… ‘e ma io ho un problema con la luce (pagare le bollette, ndr)’… ‘dammi ste bollette te le pago io’”. Pino Tursi Prato si lascia andare con Pietro Mancini, padre del candidato del Pd: “Te lo dico a te ma non devi parlare con nessuno! Tu pensa che loro… a capo di tutto ci sono un italiano e uno zingaro, che sono due… allo zingaro lo chiamano ‘Banana’”. Per gli investigatori è un esponente del clan Abbruzzese: “Aspettano che gli do il via. Loro hanno già preparato tutto. È un’operazione delicata questa… deve andare lui a fare l’operazione perché poi non vorrei che un pentito un domani…non le possiamo raccontare le cose… Non hai capito, sennò succede una cazzo di storia di nuovo Tursi Prato-Mancini… abbiamo fatto i cazzi”. In sostanza, intercettato dalla guardia di finanza, l’ex consigliere regionale del Psdi definito dagli investigatori “custode di tanti segreti”, ricorda di “‘aver tirato la volata’ anche al nonno del candidato cosentino, salvo poi aver dovuto affrontare delle problematiche giudiziarie relativamente alle modalità con cui aveva raccolto i voti nella città calabrese in quella circostanza”.

Il faccendiere e il presidente del Credito cooperativo- Ma se al padre del candidato, Pino Tursi Prato ha “confidato di aver attivato anche soggetti appartenenti alle famiglia ‘ndranghetistiche di Cosenza vecchia per ottenere appoggio elettorale”, dal presidente del Credito cooperativo di Crotone Ottavio Rizzuto è andato a battere cassa. Chi è Rizzuto lo si intuisce da un’intercettazione dell’agosto 2017 con Nicola Adamo al quale Tursi Prato dice: “Tu devi sapere che Ottavio è una persona perbene, è una persona molto stimata … ma aldilà che fa il presidente della banca, ha una rete di amicizie molto importanti, ma importanti: anche di peso”. La realtà per la Dda di Catanzaro è molto diversa e nelle carte dell’inchiesta “Thomas” i magistrati definiscono Rizzuto “l’anello di congiunzione tra gli ambienti della politica e quelli della imprenditoria mafiosa”. L’incontro tra i due avviene il 22 febbraio 2018, a ridosso delle politiche. Al presidente della banca, “oltre all’appoggio per il suo candidato”, Tursi Prato chiede “anche un aiuto economico, non direttamente da lui, ma dai fratelli Gianni e Raffaele Vrenna”, cioè l’ex presidente del Crotone Calcio. “Gli dici – sono le istruzioni di Tursi Prato a Rizzuto – guarda qua per non dirti che vi abbiamo fatto ricchi… per favore ma.. tu gli puoi dire sta cosa, gli puoi dire anche questo.. con Mario e Nicola avete i rapporti che avete… Giacomo ha fatto quello che ha fatto ma prima di questi… vi ho fatto diventare ricchi, anche perché domani o dopodomani…”. “La richiesta, si è preoccupato di precisare, – riassume la finanza – era proveniente da Nicola Adamo e Mario Oliverio, a dimostrazione dell’appoggio al candidato Mancini”. Tursi Prato spiega pure a Rizzuto la sua strategia per vincere le elezioni: “Noi porteremo i voti alla Bonino che nemmeno lo sa… perché, se ho quella palazzina che mi vota, devo mettere la Bonino sennò mi confondo…è uno studio scientifico! Nicola ha detto che dobbiamo mettere la Bonino, Nicola è del Pd! Hai capito come funziona qua? Quindi noi siamo costretti a far crescere la Bonino. Hai capito Ottà? Perché poi noi abbiamo anche la necessità di avere un riscontro… altrimenti sti voti come li controlliamo! Comunque sta cosa di Giacomo me la sono inventata io… glielo fatta entrare dalla finestra, gli ho detto tu devi andare da Verdini notte e giorno, devi stare 10 giorni”. Mentre il faccendiere parla, il suo telefono squilla. È Mancini Junior e Tursi Prato passa il cellulare a Rizzuto. “Tra i due – appuntano gli investigatori – si è registrato uno scambio di battute cordiale ma molto distaccato e senza allusioni all’indomani” nonostante, come anticipato da Tursi Prato, il candidato sarebbe passato a trovarlo nella filiale del Credito cooperativo. “Il giorno successivo – scrive sempre la guardia di finanza – puntualmente si è riscontrato, attraverso apposito servizio di osservazione, controllo e pedinamento, che Giacomo Mancini Junior si è recato da Rizzuto intorno alle ore 11.20. Si evidenzia che la visita è durata pochissimo. Il Mancini è entrato in banca e ne è uscito 5 minuti dopo riprendendo la strada per Cosenza”. Cosa è successo in quei cinque minuti, gli investigatori non lo sanno con certezza perché il telefono del candidato del Pd non era ancora sotto controllo.Tre giorni dopo, il 26 febbraio, sulla scrivania dei pm della Dda è comparsa la richiesta di intercettazione con procedura d’urgenza dei cellulari di Giacomo e Pietro Mancini. Richiesta che avrebbe consentito al tenente colonello Giuseppe Laterza e ai suoi uomini di fotografare gli ultimi dieci giorni di campagna elettorale per le politiche del 2018.

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