Quando Mama Africa chiama, i suoi figli rispondono. Un’equazione scontata in tema di nazionali. Molto meno, invece, quando si parla di club. Almeno di recente. Si possono contare sulla punta delle dita, infatti, i grandi giocatori africani rientrati nel continente per trascorrere l’inverno delle loro carriere. L’ultimo a farlo è stato Asamoah Gyan: l’ex attaccante dell’Udinese, che è anche il massimo marcatore africano nella storia dei Mondiali, dopo un lungo peregrinare in giro per il mondo è tornato in Ghana per godersi gli ultimi scampoli di una carriera mai veramente decollata come avrebbe potuto. Ad ingaggiarlo, da svincolato, sono stati i Legon Cities di Accra, con cui lo scorso 27 novembre ha esordito da subentrato nel match con il Medeama, tornando a calcare i campi della Premier League ghanese 17 anni dopo l’ultima volta: “A volte le persone dimenticano che il campionato ghanese è un campionato professionistico. Ho ricevuto l’offerta del Legon ed è andato tutto per il verso giusto. Sono molto orgoglioso di essere nel campionato ghanese”, ha spiegato il bomber 35enne in un’intervista alla Bbc.

I Royals, così come sono popolarmente conosciuti i calciatori del Legon, sono riusciti a strapparlo all’Asante Kotoko, uno dei club più blasonati dell’Africa Occidentale, garantendogli un contratto da 1 milione di dollari complessivi per quattro stagioni. Ma, almeno stando a quanto dichiarato dal più grande goleador della storia del calcio ghanese, non è stata una questione di soldi. A convincerlo è bastato l’ambizioso progetto del Legon Cities, guidato dall’uomo d’affari Richard Atikpo, presidente del consiglio d’amministrazione di Lemla (una delle maggiori compagnie petrolifere del West Africa), piuttosto conosciuto nel Paese per via della sua vena filantropica: “Sono tornato finalmente a casa. Non c’entrano i soldi. Ho firmato per questo club perché hanno un progetto enorme. Vogliono cambiare il calcio in Ghana”, ha confessato Gyan.

Un po’ come Pierre Womé, l’ex terzino di Vicenza, Lucchese, Roma, Inter e Brescia, tornato nel 2012 in Camerun, al Canon di Yaoundé. Prima, del resto, sarebbe stato impossibile. Motivo? Un rigore decisivo sbagliato contro l’Egitto nell’ultima giornata delle qualificazioni CAF verso Germania 2006, costata l’eliminazione al Camerun in favore della Costa d’Avorio di Drogba. Con l’aggravante di aver soffiato l’esecuzione dagli undici metri a un totem del calcio mondiale come Samuel Eto’o: “Mi è sembrato convinto – ha rivelato l’ex attaccante del Barcellona – e così gli ho lasciato la battuta del rigore quando me lo ha chiesto”. Quell’episodio ha scatenato la rabbia di molti camerunensi. Womé, per sfuggire al linciaggio, è stato costretto a salire sul primo aereo e fuggire in Europa con l’aiuto del ministero degli Esteri. Ormai, però, quella brutta storia è un ricordo sbiadito: il rientro di Womé in Camerun è stato anche un modo per riconciliarsi con la gente.

Un omaggio alle proprie origini congolesi, invece, è il motivo del singolare trasferimento di Anthony Vanden Borre al Mazembe. Il centrocampista belga, più o meno apprezzato in Serie A con le maglie di Fiorentina e Genoa, nel 2017 non ha resistito al fascino della squadra più titolata dell’Africa Nera, conosciuta in Italia per la finale del Mondiale per Club 2010 con l’Inter di Benítez. Non è andata benissimo. Anzi, non è proprio iniziata. Vanden Borre, apparso piuttosto appesantito negli allenamenti, è stato boicottato dai compagni e subito bocciato dall’allenatore: “È troppo grasso. Se continuasse a giocare in queste condizioni rischierebbe un infarto“, ha suonato con la consueta schiettezza Trésor Mputu, capitano, leader e anima del Mazembe. Insomma, un fiasco totale: dopo un paio di mesi, e neanche una presenza con i bianconeri, Vanden Borre era di nuovo in Belgio.

Decisamente più fortunato il “come back” di Peter Ndlovu, massimo marcatore all time dello Zimbabwe e primo giocatore africano in Premier League, tornato a casa nel 2011 prima di una discreta doppia parentesi in Sudafrica, ai Mamelodi Sundowns. La Rainbow Nation è stata pure l’ultima tappa di Steve Pienaar, ex stilosissimo trequartista di Ajax ed Everton, e Benni McCarthy, campione d’Europa nel 2004 con il Porto di Mourinho: “Sono elettrizzato. Ho sempre sperato di poter tornare”, ha dichiarato l’ex bambino prodigio del calcio sudafricano nel giorno della presentazione ufficiale con gli Orlando Pirates di Johannesburg.

Nessuno, però, ha scaldato i cuori dei tifosi come Dennis Oliech, uno dei migliori giocatori kenyoti di tutti i tempi, ingaggiato a gennaio dello scorso anno dal Gor Mahia. Un colpo sensazionale per la squadra più blasonata del Paese che lo ha letteralmente ricoperto d’oro, facendone il calciatore più pagato della storia della massima serie kenyota.

Niente a che vedere, comunque, con quello che accadeva qualche decennio fa, quando a ritornare in Africa erano veri e propri campioni, magari ancora nel fiore degli anni. Alcuni lo hanno fatto coattivamente, come i congolesi rientrati alla base su ordine del dittatore Mobutu per favorire l’affiatamento della nazionale in vista dei Mondiali del 1974. Altri per scelta sportiva, anche se oggi può risultare strano. Alcuni esempi su tutti: la punta ivoriana Laurent Pokou, il leggendario portiere marocchino Badou Zaki, e il bomber nigeriano Rashidi Yekini, primo marcatore del suo Paese nella storia dei Mondiali. O ancora i Palloni d’Oro africani Paul Moukila, idolo del CARA Brazzaville, e Chérif Souleymane, condottiero della leggendaria Hafia di Conakry tricampione continentale negli anni ’70. Erano altri tempi. Vedere oggi Salah o Mané in Africa è qualcosa più di un’utopia.

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