È di questi giorni la notizia di un padre settantacinquenne che, ossessionato dalla relazione del figlio con il compagno, ha dapprima pagato due picchiatori per mandare in ospedale il compagno e poi ha pensato bene di dare 2.500 euro a un uomo rumeno perché spezzasse le dita al figlio, 43 anni, che di professione fa il chirurgo. Una violenza inaudita e incomprensibile che ha non solo sfasciato definitivamente questa famiglia ma ha anche procurato al padre due anni di detenzione a seguito di patteggiamento davanti al tribunale penale di Torino.

Fatti agghiaccianti che sembrano persino singolari, nel senso di unici e difficilmente replicabili. Non tutti i genitori augurano ai loro figli omosessuali di vederli morti, puntano contro di loro un fucile o pagano qualcuno per picchiarli. Molti genitori sono accoglienti, amorevoli, cercano di capire i loro figli senza necessariamente giudicarli. Purtroppo, però, è sbagliato pensare che quest’ultima situazione rappresenti la regola. Esistono genitori aperti e genitori chiusi, genitori che vogliono solo la felicità dei propri figli e genitori che non esitano a umiliarli, cacciarli di casa o pregiudicarne la salute fisica e mentale.

La regola, in questi casi, sembra stare proprio nel mezzo. Dobbiamo prendere atto che anche se la società è diventata più accogliente in generale, episodi come quello di Torino ancora si verificano nel microuniverso della vita quotidiana di milioni di omosessuali, giovani e adulti.

Da almeno cinquant’anni, numerosi ricercatori nel campo del diritto, della sociologia e delle scienze comportamentali hanno mostrato come le minoranze vulnerabili – tra cui comprendiamo le donne, che pure non sono statisticamente minoranza e ciò nonostante rimangono indubbiamente vulnerabili – siano soggette a “microaggressioni quotidiane”, ed è forse questo l’aspetto davvero comune a tutte queste minoranze (donne, gay, lesbiche, persone transgender, persone non-binarie, minoranze etniche, disabili ecc.). La ricerca ha mostrato che battute ritenute innocenti, se ripetute nel tempo e in contesti diversi, influiscono negativamente sulla salute mentale di chi le riceve.

Almeno apparentemente, il caso di Torino sembra collocarsi concettualmente ben al di fuori della logica delle microaggressioni quotidiane perché qui non si tratta di usare “parole come pietre”, ma di violenza fisica immediata e diretta. Tuttavia, è facile rendersi conto di come questa distinzione tra forme di violenza ugualmente distruttive sul piano personale sia del tutto superficiale e artificiale: la violenza omofobica, al pari di quella di genere, transfobica ed etnica, è legittimata e trova la sua fonte nel silenzio e nel tabù con il quale la società affronta certe tematiche, silenzio e tabù che sono spesso alimentati da una classe politica goffa se non addirittura ignorante e meschina, che non legifera per proteggere le minoranze vulnerabili e anzi le denigra pubblicamente con battutine becere e volgari.

Non possiamo stupirci della violenza quando i gay vengono pubblicamente assimilati a dei pedofili, quando si qualifica il reato di stupro commesso da un immigrato come più grave di quello commesso da un italiano e quando il genere femminile appare nelle discussioni pubbliche solo come mero oggetto di desiderio o possesso sessuale (ovviamente maschile). L’esplosione della violenza è, in effetti, il prodotto delle microaggressioni quotidiane che diminuiscono la dignità della persona, rendendola effettivamente vulnerabile. Comprendere la violenza è fondamentale, è un esercizio necessario se vogliamo spiegare episodi come quello torinese. La violenza che vediamo perché ne leggiamo sui giornali è spesso solo la punta dell’iceberg di un universo di microaggressioni che restano anonime ma i cui segni attraversano i corpi modellandoli. Simone Alliva lo spiega benissimo nel suo libro Caccia all’omo. Viaggio nel Paese dell’omofobia (Fandango, 2020).

È per queste ragioni che trovo essenzialmente ridicolo il post con cui la leader di Fratelli d’Italia onorevole Giorgia Meloni ha commentato l’episodio in parola.

Che schifo. La stampa riporta che a Torino, un uomo venuto a conoscenza dell’omosessualità del figlio, avrebbe deciso di…

Pubblicato da Giorgia Meloni su Mercoledì 16 dicembre 2020

A parte il fatto che considerare un padre violento come “uno schifo” dovrebbe essere il minimo sindacale per entrare in Parlamento, rimane difficile trovare le parole per qualificare un simile concentrato di ipocrisia, narcisismo e pura ricerca del consenso. Ipocrisia perché essere solidali con le persone omosessuali rifiutate dalle proprie famiglie significa riconoscere la galassia di microaggressioni quotidiane alle quali queste persone sono soggette, e combatterle. Significa ripromettersi di reagire, di fare quanto possibile affinché cambi la percezione pubblica delle minoranze vulnerabili e le vittime di tutte le microaggressioni si sentano protette, a maggior ragione se a parlare è una parlamentare.

Narcisismo perché l’augurio di realizzare il proprio sogno professionale o progetto di vita è una bella quanto inutile formula retorica se la tua vita politica è costellata di attacchi alle persone LGBT e alle famiglie omoparentali, se il tuo grande amico è Viktor Orban, che ha appena cambiato la costituzione con il solo scopo di cancellare le persone transgender e le famiglie omoparentali, se parli al Family Day e se presenti mille emendamenti contro il disegno di legge Zan, che quelle persone e famiglie dovrebbe proteggerle.

Pura ricerca del consenso, perché lo schifo che Giorgia Meloni denuncia è proprio il risultato del lavoro suo, del suo partito e dei suoi alleati, e se con quel post si sarà guadagnata qualche voto in più sarà solo perché nella narrazione negazionista di cui si fa portatrice non esistono né microaggressioni quotidiane né minoranze vulnerabili, perché gli italiani vengono prima.

La solidarietà pelosa, come si suol dire, non disinteressata e in ultima analisi insincera e costellata di retorica, non è forse essa stessa una forma di violenza?

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