di Maurizio Bracci

Questo è il rimpianto che ci lascia la morte di Paolo Rossi. Un ragazzo normale, con un fisico non proprio da atleta, una faccia da ragazzo per bene, insomma uno così banalmente normale da apparire diverso. “Uno di noi”, senza tatuaggi, senza veline, senza cocaina, perché uno così è diventato Pablito. Perché era figlio di una generazione di “mediocri con le palle”.

Uno che aveva iniziato a giocare al calcio perché il pallone lo sognava la notte. Uno che a 17 anni ha subito tre operazioni al menisco ma non ha smesso di sognare di diventare campione del mondo. Uno che dopo due anni di squalifica per un’accusa (nei suoi riguardi) impalpabile come uno sbadiglio, è stato convocato da Enzo Bearzot, contro tutto e tutti.

Uno che per le prime tre partite non ha toccato palla, che incespicava sul campo come uno spaventapasseri. Uno che quando rientrava nello spogliato, gli altri compagni gli dicevano, per provocarlo, che non avrebbero più giocato in 10 (nel senso che lui era irrilevante, un peso morto insomma). Lui faceva finta di non soffrirne, rispondeva con una battuta, seguita sempre dal suo sorriso.

Anche lui, come tutti noi “normali” aveva però un valore: la dignità, che sembra non avere controindicazioni, ma che è dura da portare sulle spalle quando gli altri ti sbeffeggiano sia nel privato (era stato addirittura accusato di omosessualità insieme a Antonio Cabrini) sia nel pubblico (i titoli dei giornali di una crudeltà senza precedenti).

Ecco perché quelli sono stati i nostri migliori anni: come individui e quindi come comunità avevamo “la dignità” che ci ha fatto apparire agli occhi del mondo come Pablito, un normale extraterrestre. Grazie, Paolino anche tu come altri italiani normali (come Pietro Mennea) avrai un posto a sedere al tavolo degli Dei.

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