Sospesi nel limbo tra chi li considera studenti e chi professionisti, i medici specializzandi erano in corsia nelle fasi più dure dell’emergenza Covid, ma spesso senza poter godere di un contratto di lavoro. “Gli specializzandi sono medici, non studenti, è ingiusto trattarli come tali”, dice a Ilattoquotidiano.it Stefano Magnone, segretario regionale lombardo del sindacato dei medici e dirigenti sanitari Anaao Assomed, che da anni chiede di “valorizzare” i colleghi più giovani, “il futuro del sistema sanitario nazionale”. Come in tutti i settori – denunciano le associazioni degli specializzandi – l’emergenza ha messo in luce tutte le criticità del sistema, dalla mancanza cronica di personale agli orari di lavoro, fino ai “contratti usa-e-getta”. E anche chi si affaccia ora alla professione deve fare i conti con i ritardi e gli intoppi della burocrazia, che hanno rallentato le graduatorie del concorso 2020, nonostante il Paese sia nel pieno della seconda ondata e in molti ospedali ci sia carenza di medici e operatori sanitari.

“Gli specializzandi sono una risorsa da valorizzare” – Il segretario lombardo del sindacato è convinto che il ruolo dei medici in formazione vada tutelato e valorizzato, riformando il sistema dalle basi: “Anche adesso ci sono università che con pretesti burocratici non consentono agli specializzandi di essere assunti. Ci sono gli ospedali vuoti e i policlinici universitari pieni, e troppi specializzandi significa che è più difficile imparare”. La formazione in una struttura universitaria garantisce un standard qualitativo uniforme, ma già da alcuni anni è prevista una rete formativa più estesa che coinvolge anche ospedali satellite o strutture in provincia. Il sindacato Anaao stima che, dal 2019 al 2023, in tutta Italia circa 32mila medici andranno in pensione. “Noi da tempo chiediamo la possibilità di assumere gli specializzandi del terzo, quarto e quinto anno – spiega Carlo Palermo, segretario nazionale – parliamo di 13mila medici”. La pandemia, sottolinea, ha mostrato la carenza di specialisti. “La capacità di risposta del sistema sanitario non è solo una questione di ventilatori e letti, se poi non ci sono i medici ad assisterli”. Per sopperire alla mancanza, molte Regioni hanno richiamato i medici in pensione: “Cioè la fascia più a rischio in questa pandemia. Bisogna tener presente che un quarto dei medici nei nostri ospedali ha più di 60 anni: se non ci sono gli specialisti, che allora si assumano agli specializzandi, che favoriscono un ringiovanimento delle fila. Però non con contratti precari, “usa e getta”, ma con forme che garantiscano stabilità e tutele, come il tempo determinato”.

I contratti ad hoc per l’emergenza – Quando a marzo è arrivata l’onda d’urto del coronavirus, le strutture sono andate rapidamente in affanno. “Per far fronte alla carenza di personale medico, in alcuni ospedali sono stati instaurati rapporti di lavoro ad hoc tra gli specializzandi degli ultimi due anni e le aziende ospedaliere”, spiega Magnone al Fatto.it. Si tratta di contratti di collaborazione coordinata continuativa o a tempo determinato, a cui gli specializzandi potevano accedere per un tempo parziale e in deroga alla normativa vigente sulle assunzioni. “Alcuni specializzandi più ‘anziani’, del quarto e del quinto anno, sono stati assunti negli ospedali a tempo determinato o con contratti a ore – precisa Magnone – restava il problema degli specializzandi più giovani, cioè del primo, secondo e terzo anno: avevano lavorato come gli altri, ma senza essere assunti e senza ricevere il bonus previsto per tutti gli operatori sanitari”. Anche grazie alle proteste, ora la giunta regionale lombarda ha approvato un progetto di legge in cui, tra le varie misure, è previsto lo stanziamento da un milione e mezzo di euro per gli specializzandi. Misura già prevista da altre Regioni. Durante la prima ondata si è molto discusso se gli specializzandi fossero abbastanza preparati per entrare in corsia in un momento così delicato. “Non vengono mica mandati allo sbaraglio – replica Magnone – gli strutturati sono sempre presenti o reperibili, con una gradualità di autonomia crescente. In Italia resiste questa forma di ipocrisia secondo cui il famoso ‘pezzo di carta’ funziona come un interruttore: fino al giorno prima si è studenti incapaci, il giorno dopo professionisti totalmente autonomi. La specializzazione non è un sistema on/off, ma graduale e di continua crescita”.

I medici in formazione: “Siamo scesi in piazza per chiedere risposte” – “Noi specializzandi, insieme ai colleghi in extra-moenia, siamo stati i grandi esclusi”, dice Gabriele Del Castillo, vicepresidente di Me.S.Lo, l’associazione di Medici Specializzandi Lombardia, costituita proprio per fare rete tra le diverse scuole e tutelare tutti i medici in formazione con lo scopo di discutere di problemi comuni e fare da tramite tra le università e la Regione. “Gli specializzandi dei primi anni non potevano usufruire dei contratti per l’emergenza. A giugno siamo scesi in piazza per chiedere delle risposte concrete per le diverse discriminazioni a cui siamo sottoposti: quando conviene, veniamo considerati medici, altrimenti siamo studenti”. L’associazione Me.S.Lo spiega il contributo “decisivo” dato dagli specializzandi in questi mesi: “Abbiamo sgravato il carico di lavoro dei colleghi dirigenti e abbiamo contribuito al monitoraggio della pandemia, occupandoci in prima persona di sorveglianza, contact tracing e analisi dei dati”. Un supporto, sottolineano, che non può essere dato per scontato. L’emergenza sanitaria poi ha accentuato i problemi già esistenti: turni festivi non retribuiti, riposi non garantiti e un orario di lavoro ben oltre i limiti di legge. “Quello che la nostra associazione ritiene fondamentale – prosegue il vicepresidente – è che la strutturazione del percorso sia condivisa con tutte le parti coinvolte, quindi anche con noi: sul futuro della formazione medica si gioca la salute di tutti i cittadini”.

Cos’è e come funziona la specializzazione – Per capire la complessa posizione dei medici in formazione, bisogna fare un passo indietro. Dopo la laurea in Medicina, tradizionalmente, si passa attraverso l’esame di abilitazione alla professione. Eventualmente, si può scegliere se proseguire il proprio percorso diventando medico di medicina generale o specialista in una disciplina clinica o chirurgica: pediatria, ortopedia, cardiologia, cardiochirurgia, ginecologia, eccetera. Per accedere, bisogna ottenere tramite concorso una borsa di specializzazione, il cui numero è definito dal Ministero dell’Università e della Ricerca, ma esistono anche posti aggiuntivi finanziati da Regioni o enti privati. Quest’anno, sulla scia europea e sull’onda dell’emergenza Covid, è stata introdotta la laurea abilitante, che permette di sostenere subito il concorso. Il percorso di specializzazione prevede esami e una tesi finale; il lavoro dei medici in formazione è regolato da un contratto di specializzazione, rinnovato di anno in anno. Da molto tempo si discute se aumentare il numero delle borse disponibili, per aggirare il cosiddetto “imbuto formativo” e dare sollievo alla cronica mancanza di specialisti. Il ministro Gaetano Manfredi ha annunciato quest’estate di aver quasi raddoppiato le borse, passando da 8mila a oltre 14mila: ma per via della laurea abilitante, al test si sono sovrapposte due coorti di candidati, i laureati dell’anno 2019 e i laureati del 2020. Totale: 23.576 aspiranti specializzandi per 14.400 borse disponibili.

Il concorso rimandato e la graduatoria bloccata – Il concorso per la specializzazione si sarebbe dovuto svolgere a luglio, poi rinviato al 22 settembre. La graduatoria, prevista per il 5 ottobre, è stata inizialmente “rimandata a data da destinarsi” per la mole di ricorsi da esaminare. Sarebbe bastata una rapida occhiata al bando, denunciano gli aspiranti specializzandi, per accorgersi di errori che, prevedibilmente, avrebbero dato luogo a ricorsi. I due principali riguardano l’incompatibilità o meno con un’eventuale specializzazione già in corso o con il concorso per medici di medicina generale. “Per 21 giorni nessuna comunicazione, nemmeno una mail”, commenta deluso Andrea, uno dei candidati. Il 26 ottobre è uscita una prima graduatoria, bloccata, perché alcuni ricorsi dovevano ancora essere valutati dal Consiglio di Stato. Quindi, tutto rimandato al 9 novembre. Il 2 novembre, a sorpresa, è apparsa la possibilità di scegliere la scuola. “Si è scatenato il panico – prosegue Andrea – ma si trattava di un bug del sistema. Oltre al danno, la beffa”. Finalmente il 9 novembre è uscita la roadmap: ogni candidato potrà indicare le sue scelte dal 23 al 27 novembre, e le assegnazioni saranno comunicate il 30 novembre. C’è tempo per immatricolarsi fino al 9 dicembre, e l’inizio delle attività didattiche è previsto per il 30 dicembre, perché i contratti devono essere firmati entro la fine dell’anno 2020. “Dopo tutta questa attesa, abbiamo pochissimo tempo per fare le scelte”, spiega un altro aspirante specializzando, Giulio. Una scelta che va ragionata in base al punteggio, oltre che alle proprie inclinazioni: è un delicato equilibrio di probabilità che il proprio punteggio sia sufficiente per entrare in questa o quella scuola. “Dall’assegnazione, avremo tre settimane circa per cercare casa e trasferirci magari dall’altra parte d’Italia, in mezzo a una pandemia”. Quei trenta giorni, aggiunge, non sono nemmeno sufficienti per lasciare il lavoro, per chi già ne ha uno, senza incorrere in una penale. “Dopo aver aspettato tanto, non lo troviamo giusto”.

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