Le missioni militari sono uno dei campi in cui il presidente americano uscente, Donald Trump, ha deciso di portare a compimento la propria resa dei conti prima di passare il testimone a Joe Biden come inquilino della Casa Bianca. Un ritiro da diversi fronti-chiave che, però, non ha scatenato solo il disappunto dei Generali, da anni in contrasto con le politiche inaugurate dal tycoon, ma anche all’interno del partito Repubblicano e della Nato. Le ultime indiscrezioni vogliono il presidente deciso a portare avanti un graduale ritiro delle forze dall’Afghanistan, dall’Iraq e dalla Somalia, ma la strategia non è piaciuta, ad esempio, al leader della maggioranza al Senato, Mitch McConnell, convinto sostenitore del presidente durante l’inchiesta sul Russiagate: “Un rapido ritiro delle forze Usa dall’Afghanistan ora danneggerebbe i nostri alleati e sarebbe una gioia per le persone che vogliono danneggiarci”, ha dichiarato. Mentre il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, mette le cose in chiaro: “Siamo entrati in Afghanistan insieme e quando sarà il momento dovremmo partire insieme in modo coordinato e ordinato”.

Nato: “Ritiro frettoloso potrebbe avere prezzo molto alto. Garantiamo la presenza agli alleati”
Una presa di posizione, quella di Stoltenberg nei confronti del più importante membro dell’Alleanza, inusuale e che per questo assume un significato ancora più forte: “Conto su tutti gli alleati della Nato per essere all’altezza di questo impegno, per la nostra stessa sicurezza – ha affermato – Sono in stretto contatto con gli Stati Uniti, così come con tutti gli altri alleati per quanto riguarda la nostra missione in Afghanistan. Ora dobbiamo affrontare una decisione difficile. Siamo in Afghanistan da quasi 20 anni e nessun alleato della Nato vuole restare più a lungo del necessario. Ma allo stesso tempo, il prezzo per partire troppo presto o in modo scoordinato potrebbe essere molto alto“. Anche per la sicurezza interna degli stati dell’Alleanza, visto che “l’Afghanistan rischia di diventare ancora una volta una piattaforma per i terroristi internazionali per pianificare e organizzare attacchi nelle nostre terre d’origine. E l’Isis potrebbe ricostruire in Afghanistan il califfato del terrore che ha perso in Siria e Iraq”.

Il segretario generale ha poi voluto puntualizzare che “gli alleati della Nato sostengono il processo di pace in Afghanistan. Come parte di questo processo, abbiamo già modificato in modo significativo la nostra presenza e abbiamo ripetutamente affermato che continueremo a rivedere i nostri livelli di truppe. Ora abbiamo meno di 12mila operativi Nato in Afghanistan e più della metà di questi sono forze non statunitensi. Anche con ulteriori riduzioni degli Stati Uniti, la Nato continuerà la sua missione di addestrare, consigliare e assistere le forze di sicurezza afghane. Ci impegniamo inoltre a finanziarli fino al 2024″.

Repubblicani: “Il ritiro è un errore”
Proprio coloro che stanno continuando a sostenere il presidente nel rifiuto di riconoscere la vittoria elettorale dell’avversario Democratico sono però contrari alle sue posizioni in materia di missioni militari all’estero. Il fedelissimo Marco Rubio, che presiede la commissione Intelligence del Senato, evoca gli spettri del Vietnam: “La preoccupazione è che si potrebbe trasformare in una situazione tipo Saigon, con una rapida caduta che comprometterebbe la nostra capacità di condurre operazioni contro terroristi nella regione”, ha detto sempre in riferimento al Paese asiatico dove sono ancora in corso complicati colloqui tra Governo e Taliban, mentre sul campo si registra da settimane l’ennesima escalation di violenza.

Per la commissione Forze Armate “non si possono ridurre unilateralmente i livelli di truppe, penso che sia un errore – ha detto il senatore Mike Rounds – Un ritiro disorganizzato metterebbe a rischio il grande numero di successi che questa amministrazione è riuscita ad ottenere”. Anche il falco Lindsey Graham ha espresso parole di preoccupazione riguardo al fatto che un contingente di appena 2.500 militari “potrebbe essere una forza limitata per proteggerci dal collasso”. Posizione condivisa dal senatore John Barrasso, che ha viaggiato con Trump in Afghanistan, con “la speranza che il presidente ascolti i consigli degli uomini e le donne sul terreno”.

Governo afghano: “Terroristi sono ancora una minaccia”
Anche l’esecutivo afghano guidato da Ashraf Ghani ha invitato la coalizione occidentale a riflettere bene sulla possibilità di un ritiro, con i gruppi estremisti ancora attivi nel Paese e l’accordo intra-afghano ancora lontano dal vedere la luce. “Le forze afghane hanno sviluppato un’importante capacità di difesa del Paese”, ma “i gruppi terroristici in Afghanistan rappresentano ancora una minaccia per gli interessi dell’Afghanistan e dei suoi alleati internazionali”, ha dichiarato in conferenza stampa il portavoce della presidenza, Sediq Sediqqi.
Che ha poi parlato anche dei colloqui intra-afghani partiti a metà settembre a Doha (e in fase di stallo), dopo l’accordo di febbraio tra i Taliban e gli Stati Uniti. “I Taliban – ha accusato – non hanno rispettato i loro impegni e hanno aumentato le violenze”.

Prima del voto, il tycoon aveva promesso che avrebbe riportato a casa le truppe dall’Afghanistan “entro Natale”. Una mossa elettorale che, però, ha trovato seguito anche dopo la sconfitta alle urne. E l’inizio dell’ultimo scontro tra il presidente e i vertici militari è stato il licenziamento, il 9 novembre, del segretario alla Difesa Mark Esper, sostenuto dagli alti gradi e ormai stabilmente in conflitto con l’inquilino della Casa Bianca nel tentativo di mantenere posizioni più prudenti in tema di missioni militari. Il nuovo capo del Pentagono, Christopher Miller, appare invece favorevole al piano di Trump, come dimostra la scelta di Douglas McGregor, colonnello a riposo critico della presenza Usa in Afghanstan, come principale consigliere.

Secondo le indiscrezioni diffuse dai media americani, la volontà del presidente è quella di dare inizio a un ritiro parziale ma massiccio delle truppe da scenari chiave come l’Afghanistan, l’Iraq e, secondo gli ultimi aggiornamenti, anche la Somalia. Esclusa dall’operazione di ritiro la Siria, così come le truppe Usa di stanza in Kenya e a Gibuti, il che permetterebbe ancora di colpire la formazione jihadista degli al-Shabaab in Somalia con attacchi aerei.

Per quanto riguarda il teatro più delicato, quello afghano, soprattutto per il ruolo di mediatore assunto dagli Stati Uniti nei colloqui di pace con le fazioni Taliban, tenendo anche conto della crescente attività di uomini dello Stato Islamico, l’intenzione del tycoon è quella di dimezzare le attuali 4.500 presenze su tutto il territorio.

Ritiro, anche se di minore entità, previsto anche in Iraq, dove i soldati a stelle e strisce presenti sono al momento 3mila, con il numero che potrebbe essere rivisto a 2.500. Tutti a casa, invece, i 700 militari di stanza in Somalia e impegnati in una missione di addestramento e antiterrorismo.

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