Perché la Regione Campania è diventata zona rossa? Forse perché dall’ultimo monitoraggio dei dati e dai 21 parametri epidemiologici fissati dagli esperti è aumentato il rischio contagio? Nossignore: la colpa è dell’anti meridionalismo. Ne è sicuro il governatore Vincenzo De Luca, che nell’ultima puntata del suo show settimanale non si è limitato ad attaccare il governo, auspicando addirittura un cambio di esecutivo come ritorsione per la stretta decisa nella sua Regione. E nemmeno a lanciare messaggi a Roberto Saviano, mai citato esplicitamente ma definito “camorrologo di professione, ormai milionario, che però continua non solo a vestirsi come un carrettiere perché fa tendenza, ma anche a parlare di cose di cui non capisce niente”.

A questo giro, per protestare contro la Campania zona rossa il governatore ha rispolverato un concetto che sembrava dimenticato: il sentimento anti Sud. *Le cose a cui stiamo assistendo sono in larga misura la forma moderna di un anti meridionalismo e un anti napoletanismo che rimane sempre sotto traccia e di fronte a ogni emergenza viene a galla e si manifesta in tane forme diverse”, sostiene De Luca. Che dunque sembra voler risalire a Giuseppe Garibaldi e a Nino Bixio, all’annessione del regno dei Borbone in quello dei Savoia per giustificare il rischio alto di contagio assegnato alla sua Regione. Ma come fa questa “forma moderna di anti meridionalismo” a incidere sulla circolazione del virus, e dunque sulle decisioni della cabina di regia del ministero della Salute? Come fa il sentimento anti Napoli a convincere il Covid che in Campania bisogna circolare di più? “In questa circostanza – risponde il governatore – si manifesta nelle forme di una campagna di sciacallaggio politico e mediatico contro la Campania, cioè contro i cittadini campani, contro le migliaia e migliaia di medici e infermieri, personale che sta dando una prova in qualche caso eroica di responsabilità e di attaccamente al dovere e anche di orgoglio civico”.

Parole che ricordano da vicino le prese di posizione di Attilio Fontana alla fine della prima ondata dell’epidemia, quando il coronavirus aveva colpito soprattutto la Lombardia. Tra Bergamo e Brescia, Milano e Pavia, si contava spesso la metà dei nuovi contagi che si registravano in tutto il Paese. A lockdown concluso, dunque, il Pirellone era finito sotto accusa per la gestione dell’emergenza. Soprattutto nei giorni in cui la procura di Milano aveva aperto l’indagine sul cosiddetto caso camici, e dunque sul cognato del governatore. Fontana aveva reagito tirando in ballo un presunto – ed inedito – sentimento anti lombardo. “Sono abbastanza esterrefatto dalla serie di violenti attacchi che vengono rivolti quotidianamente alla Lombardia. Dato che la cosa si sta ripetendo da giorni e settimane inizio a pensare che oltre a una questione di carattere politico ci possa essere anche qualcosa nei confronti di una Regione che si è sempre evidenziata per la sua capacità di affrontare i problemi, di essere all’avanguardia nell’innovazione e nella ricerca e questo mi lascia amareggiato”, diceva l’esponente della Lega. Quindi il problema non era la sua gestione dell’emergenza, ma il fatto che la Lombardia – da sempre prima della classe – non poteva che suscitare invidia da parte delle altre Regioni.

Una ricostruzione al quale aveva contribuito a dare copertura ideologica – seppur indirettamente – anche Ferruccio de Bortoli, ex direttore del Corriere della Sera, il giornale lombardo per antonomasia. “Uno spirito anti lombardo è emerso nel Paese. Come se vedere colpita questa Regione, sempre definita un modello, anziché suscitare vicinanza, desse un piacere che i tedeschi definiscono con una parola precisa: schadenfreude, gioia per le disgrazie altrui. Non è più inaccettabile. Bisogna reagire”, ragionava l’autorevole giornalista in un’intervista all’Huffington post. Un parere che aveva incoraggiato Fontana. E infatti a luglio, in piena estate, il governatore era tornato a sostenere – questa volta in consiglio regionale – che a “causa di tutti questi attacchi, Regione Lombardia ha subito un grave contraccolpo a livello di reputazione” determinando “un sentiment negativo” e “arrivando a mettere in discussione un’eccellenza, quella del sistema sanitario lombardo, riconosciuto a livello nazionale e internazionale”. Quindi anche lì a guastare la reputazione della Regione più colpita dal Covid non erano le tragedie di Alzano e Nembro e neanche le stragi di anziani nelle Rsa. E a determinare un “sentiment negativo” nei confronti del Pirellone non era stato il suo presidente, il primo politico al mondo a indossare una mascherina in diretta (“Ma non spaventatevi”, disse la sera del 26 febbraio, quando una sua collaboratrice era risultata positiva). Non c’entrava nulla neanche l’inchiesta sui camici, che coinvolgeva direttamente la famiglia del governatore. No: il grave contraccolpo reputazionale era dovuto alle critiche ricevute sulla gestione della pandemia. Attacchi come questo: “Quando noi chiudevamo, altrove si facevano iniziative pubbliche: Milano non si ferma, Bergamo non si ferma, Brescia non si ferma, poi si sono fermati a contare migliaia di morti, non centinaia”. Era il 22 luglio e a pronunciare quelle parole era Vincenzo De Luca.