Domenica 25 ottobre 2020, anno di malagrazia covidica. Eppure, alla faccia del virus, il Giro si è concluso quando era previsto e dove era cominciato, la prima volta, nel 1909. A Milano, ed è stato un gran bel finale. Come quando si stappa una bottiglia di bollicine: il botto che suggella la festa.

Questo Giro incapsulato in una “bolla” viaggiante per contenere i rischi epidemici l’ha vinto un corridore londinese dal nome impronunciabile: Tao Geoghegan Hart, che se volete essere corretti dovete pronunciare – tra il Tao e l’Hart – con lentezza, masticando la g, è un sospiro, ossia “Gaygan”. È l’eroe di una corsa che fu territorio dei più grandi campioni della storia del ciclismo, e forse anche oggi che è lunedì ancora non riuscirà a metabolizzare ed elaborare la portata del suo trionfo, ottenuto nell’ultimo quarto d’ora di una corsa durata tre settimane.

Ma un grande applauso lo meritano anche gli audaci organizzatori, pure loro vincitori: della scommessa di portare a conclusione un Girovid pericolosamente itinerante in territori preda della pandemia. Con molta enfasi, Mauro Vegni, patron della corsa, ha addirittura detto che il Giro al tempo del coronavirus prova che l’Italia può farcela e che è risorta.

Il plauso, ovviamente, va esteso anche ai 133 corridori superstiti (alla partenza erano 176), ed allo sconfitto in extremis, l’australiano Jai Hindley, battuto dall’amico Tao nell’ultima frazione, 15,7 km a cronometro, mai come in questa circostanza drammaticamente decisivo. La tappa è stata dominata dal nostro Filippo Ganna, che è il fresco campione mondiale della specialità. Il piemontese ha sbalordito con un poker, un esordio formidabile al suo primo Giro, quattro tappe intascate con autorevolezza (tre i successi contro il tempo e uno con una spettacolare fuga lungo un tracciato gallonato. Ha eguagliato il record di vittorie dello sprinter francese Arnaud Démare, dominatore delle volate. Sia Ganna che Démare hanno dimostrato nelle loro specialità un netto predominio. Felici dunque i tifosi britannici, quelli italiani e quelli francesi…

È stata l’inattesa epopea di due ex gregari, separati all’ultima tappa da appena 86 centesimi, mai successo in nessuna grande corsa a tappe, ed è incredibile immaginarlo dopo oltre 85 ore di corsa, quante ne sono state necessarie per affrontare 3348 chilometri, salite, discese, fughe, volate. Quegli 86 centesimi per assegnare la maglia rosa di giornata parevano quasi una beffa: un soffio. Una pedalata in più separava Jai da Tao. Una gerarchia crudele.

Alla fatidica ultima frazione, Hindley e Hart si sono quindi ritrovati divisi da quell’assurda, ingiusta differenza. Si prospettava, dunque, un fantastico, inatteso duello all’ultimo metro. Almeno, sulla carta. In verità il favorito era Hart, ottimo passista-scalatore, più strutturato per una prova a cronometro totalmente piatta, con lunghi rettilinei, dove contava la potenza, ossia la capacità di spingere un rapportone. Così è stato. Hart ha sfruttato i suoi watt e fin da subito ha sopravanzato Hindley nei riscontri cronometrici. L’australiano ha perso virtualmente la maglia rosa (conquistata il giorno prima al Sestriere) all’imbocco di corso Matteotti. Trentanove secondi dopo, cioè 39 secondi di troppo, ha tagliato il traguardo all’ombra del Duomo di Milano, mentre l’amico Hart esultava, sia pure con contegno e tanta commozione. Distanti un centinaio di metri, Hart baciava la fidanzata, Hindley singhiozzava per aver perduto l’occasione della vita. Uno si è sentito dentro una favola. L’altro dentro un incubo. Entrambi avevano il sogno davanti al loro manubrio. Il sogno di ogni ciclista. Lo sport è crudele. Il ciclismo illude delude più spesso di quanto non porti felicità.

Così, senza avere mai indossato la maglia rosa, Hart ha conquistato un Giro assai particolare, in un contesto quotidiano sempre più drammatico: via via che la corsa rosa si avvicinava al termine (della notte, verrebbe da dire). Sfiorando le zone colpite dal virus, evitando i focolai, badando a limitare i contatti col resto del mondo, la carovana del Girovid pareva un’astronave in massima allerta, attenta ad evitare l’impatto con gli asteroidi che infestano lo spazio…

L’arrivo a Milano non era poi così scontato, vista l’escalation pandemica di questi ultimi giorni. Una sfida nella sfida. Eppure tutto si è svolto perfettamente. Con gagliardia i corridori hanno percorso gli ultimi chilometri dell’ultima tappa lungo le strade della città più colpita dalla seconda ondata pandemica, sino al cuore della metropoli, all’ombra del Duomo. Come tantissime altre volte. Ogni chilometro ieri, affrontato da ognuno dei 133 “girini”, è stato un chilometro strappato alla paura, ai disagi, ai sacrifici. Il Giro ferito dal Covid è stato simbolicamente il Giro della resilienza di noi tutti. Un messaggio di speranza (con la s minuscola).

Non solo. Nel marasma covidico che affligge le cronache quotidiane, rifulge la favola di due corridori quasi sconosciuti che si sono scoperti campioni, e forse lo confermeranno, capaci di rianimare fieramente la corsa nei luoghi dove il ciclismo è stato mito: lungo i tornanti asfittici dello Stelvio e quelli ingannatori del Sestriere affrontato tre volte (!), svegliando finalmente un Girovid assopito e francamente spesso noioso, umiliato persino dalla figuraccia della diciannovesima tappa dimezzata per l’ammutinamento dei corridori.

Hanno ridato fiato ed epica ad un ciclismo sull’orlo di una crisi di nervi, hanno rinnovato, col loro strenuo duello i temi fondanti – la rivalità, le tattiche, gli attacchi, il confronto allo spasimo – che ne hanno fatto uno sport meraviglioso, un cantico della fatica ma anche del coraggio e della resistenza. Lampi di classe. Soprattutto da parte di Rohan Dennis, il più veloce di sempre nella scalata alla Cima Coppi (lo Stelvio lo era quest’anno), compagno di squadra di Hart e suo straordinario scudiero. Se Hart ha vinto il Giro lo deve proprio a Rohan (e alla Ineos, il poderoso team) che lo ha condotto e guidato nel modo più efficace e scaltro. La dimostrazione che oggi più che mai il ciclismo dai valori sovente appiattiti è sempre più gioco di squadra. E rivoluzione anagrafica.

Infatti, otto dei primi venti in classifica hanno meno di 25 anni, Hindley per esempio ne ha 24, Hart dieci mesi di più, il portoghese Joao Almeida che ha vestito la maglia rosa per quattordici tappe ha 22 anni. Il futuro del ciclismo post-Covid è tutto loro. L’Ineos – ex Sky – ha saggiamente puntato ed investito sui giovani. I quali non hanno deluso le aspettative. Anzi. Sono andati oltre ogni previsione: conquistando un Giro difficile e angustiato dalla psicosi pandemica. Vincendo sette tappe, una su tre, un dominio impressionante, accaparrando la classifica a squadre nonostante avesse perso il leader Geraint Thomas fin dall’inizio in Sicilia, per l’ormai famoso incidente provocato da una borraccia.

Non bastasse il Giro ecco che nella stessa domenica 25 ottobre, alla Vuelta un altro corridore della Ineos, il brillante ecuadoriano Richard Carapaz, 27 anni e già vincitore del Giro 2019, ha preso la maglia rossa che identifica il primo della classifica. Un en plein memorabile. Carapaz, peraltro, è reduce dal Tour de France che nel 2019 fu vinto dal colombiano Egan Bernal, allora ventiduenne e che quest’anno ha visto trionfare lo sloveno Tadej Pogacar, 22 anni compiuti il 21 settembre. Insomma, il Girovid d’Italia ha confermato questa svolta, marcando il confine tra la vecchia generazione (come Vincenzo Nibali, per intenderci) e la nouvelle vague delle due ruote. Lo stesso è avvenuto nelle Classiche Monumento con Van Aert e Van der Poel, senza dimenticare un altro giovanissimo fenomeno, lo sfortunato Temco Evenepoel che al Giro di Lombardia è volato in un burroncello rischiando la vita, mentre stava per andare a vincerlo.

Di certo, l’improvvisa affermazione di Hart e di Hindley ha stravolto ogni pronostico della vigilia. Al via da Palermo nessuno li aveva inclusi tra i favoriti, nemmeno sul podio o nei suoi dintorni. La rovinosa caduta di Geraint Thomas paradossalmente ha deresponsabilizzato i suoi compagni di squadra ed hanno cominciato a correre puntando alle vittorie di tappa, più che alla classifica generale. Quanto ad Hindley, era partito al servizio dell’olandese Wilco Kelderman, il capitano della Sunweb, ma poi Kelderman non ha retto gli attacchi della Ineos, al contrario di Hindley che si è ritrovato in maglia rosa, al posto del suo capitano.

Meno problematica la vicenda di Hart: solo nell’ultima settimana ha capito che tutto sommato era in ballo per il podio, e solo dopo lo Stelvio si è convinto che poteva aspirare a qualcosa di più. Buon scalatore e onesto passista, TGH (ormai l’acronimo evita balbettii imbarazzanti ai telecronisti…) ha tratto vantaggio dalla sua polivalenza, che guarda caso è la caratteristica di tutti i giovani campioni emergenti. Curiosità: pochi sanno che l’80 per cento delle sue vittorie le ha ottenute in Italia (4 su 5), tre delle quali quest’anno, compresi i due successi di tappa al Girovid.

Se è nata una stella della bici lo sapremo l’anno prossimo, dice Nibali, “è vero che questi ragazzi vanno più forte di me e di quelli che hanno la mia età”. Onesto. Tuttavia, ha aggiunto, si è trattato di un anno molto particolare, a causa del Covid-19. Come dire: vediamo quando tutto rientrerà nella norma, “io avevo calibrato la mia preparazione per essere in forma a maggio, poi il Covid ha rovinato i miei piani…”. Non ha torto: mai un Giro si era corso ad ottobre (né un Tour a settembre o una Vuelta che finirà, se il Covid lo consentirà, a novembre).

Più che particolare, questo 2020 delle due ruote direi che resterà certamente indimenticabile: perché disputato nel mese delle foglie morte. Cadono, ma non i rami. Gli alberi ricominceranno a mettere le foglie nuove a primavera. In fondo, la metafora della nostra esistenza. L’inverno del nostro scontento covidiano ha da passare. Come certe brutte notti. O certe “cotte” che tormentano i ciclisti.