L’Occidente non crede più in nulla già da tempo. Almeno da quando “l’ospite più inquietante”, il nichilismo, si è insinuato nei suoi spazi, occupandoli integalmente e senza zone franche. Niente più valori e ideali, niente più dèi e idee eterne: tutto è precipitato nell’abisso, svalorizzandosi. Nichilismo, ci ha insegnato Nietzsche, è il processo di trasvalutazione di tutti i valori, al termine del quale non resta più, letteralmente, nulla. O, più precisamente, resta il nulla come unico valore superstite.

Per ciò stesso, rimangono ora inevase le domande più importanti, quelle sui fondamenti, alle quali l’Occidente aveva variamente provato a rispondere: perché? A che scopo? Verso dove? In balia del tecnonichilismo e dell’ombra del nulla che si estende senza lasciare alcunché fuori dal proprio campo, resta un unico punto fermo per l’uomo occidentale, un unico, estremo valore, condiviso con gli altri animali e, propriamente, neppure inquadrabile in quanto tale in quella sfera, sempre a suo modo ideale, dei valori: tale valore è la vita o, se si preferisce, la mera sopravvivenza del proprio corpo individuale. Il conatus sese servandi, come anche lo appella Spinoza.

Per l’Occidente, che già da tempo non crede più nell’anima e nel suo destino, resta solo la nuda materialità del corpo come punto di riferimento, come valore immanente a cui aggrapparsi, trasfigurandolo in valore sommo nonché esclusivo. Per secoli, come sappiamo, la Chiesa si era occupata della salvezza delle anime, premurandosi di operare affinché esse, anziché perdersi, si salvassero nell’eterna beatitudine e ascendessero al regno dei cieli. Perché ciò potesse realizzarsi con successo, era richiesta la tecnica che Foucault, in più luoghi, chiama “pastorale”: il pastore come salvatore di anime doveva controllare sempre e ovunque il suo gregge, ogni suo singolo membro.

Doveva, mediante la pratica della confessione, sapere cosa pensassero e come agissero, cosa desiderassero e che peccati commettessero le sue “pecore”. Ora, l’Occidente già da tempo ha abbandonato la sua figura storica della Chiesa: ove essa ancora esista, svolge un ruolo marginale, non più da protagonista, assai spesso – diceva senza troppe perifrasi Andrea Emo – da “cortigiana”. Ultimamente l’Occidente scristianizzato e abitato dal nichilismo si è consegnato a un’inedita figura: quella della Chiesa medico-scientifica.

Essa non promette di salvare le anime, in cui più nessuno crede, ma i corpi, che sono la sola cosa in cui tutti ormai credono: promette, cioè, di garantire la sopravvivenza fisica nel tempo della “valle di lacrime” della pandemia e del nuovo ordine terapeutico. Ne scaturisce una paradossale soteriologia materialistica, che altro scopo non ha se non quello di garantire la salvezza dei corpi in questo mondo, la loro sopravvivenza. La salvezza trascendente che la Chiesa prometteva per le anime viene promessa dalla scienza medica per i corpi, in forma rigorosamente immanentizzata.

Anche per la buona riuscita di questa operazione, v’è comunque bisogno di un pastore, per quanto diverso da quello a cui si affidava la Chiesa: un pastore – il medico, l’esperto, lo scienziato – che ai vecchi simboli, formule e riti ne sostituisce di nuovi. Egli soltanto, con il suo rapporto asimmetrico rispetto al “gregge” e alla sua eventuale immunità, come per curiosa analogia la si appella, detiene un sapere privilegiato, in grado di produrre la salvezza dei corpi e di garantire che, se al sapere da lui diffuso ci si attiene, si può vincere sul male sempre in agguato. È anche questa, come quella della Chiesa contro il demonio, una lotta contro un nemico invisibile e malefico, che l’uomo comune, a differenza del sacerdote, non sa riconoscere e da cui, anzi, facilmente si lascia ingannare.

Come il demonio assume spesso le sembianze dell’uomo onesto, facendosi indistinguibile e confondendo, così il nuovo nemico invisibile, e non di meno puramente e rigorosamente materiale, si occulta in chi – l’“asintomatico” – appare come tutti gli altri del gregge. Anche quella della scienza medica è una battaglia sacra contro un principio maligno, che può intaccare la cosa più preziosa, il corpo, negandogli la salvezza e corrompendolo. La massa profana, il nuovo gregge da salvare, non ne sa nulla: e deve solo, con fede e osservanza, affidarsi alle cure del pastore, confidandogli tutto, lasciandosi controllare nei gesti e nelle movenze, nelle operazioni e anche nei pensieri.

Ne va, appunto, della sopravvivenza del corpo, cioè dell’unica cosa in cui ancora si creda. La sola cosa in nome della quale si sia pronti a sacrificare tutto: comprese, ovviamente, quelle realtà – la libertà, in primis – in cui, prima dell’avvento del nichilismo tecnoscientifico, si era pronti a sacrificare la vita. Proprio in ciò si misura il mutamento radicale: il corpo come mera vita, come semplice sopravvivenza, ossia ciò che un tempo si era pronti a sacrificare per realtà valoriali giudicate più alte, per ideali ritenuti più nobili, è oggi innalzato esso stesso a sola realtà a cui ogni ideale possa essere sacrificato.

La stessa Chiesa, che sempre più sembra solo sopravvivere a se stessa, si è convertita alla nuova religione materialistica della scienza medica: a tal punto da abbandonare ogni anelito di trascendenza, ogni slancio di ulteriorità sovrasensibile: così si spiega il transito da Francesco da Assisi, che abbraccia i lebbrosi, e da Carlo Borromeo, che comunica gli appestati, all’odierno pontefice, che annulla i suoi viaggi pastorali per via del Coronavirus e accetta, con colpevole silenzio, la proibizione delle funzioni religiose per ragioni sanitarie.

È la resa senza resistenza della vecchia Chiesa, quella della salvezza delle anime, alla nuova, quella della salvezza dei corpi.

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