Puntuale come un raffreddore, a ottobre scatta il “mese della prevenzione dentale”, l’unico progetto di prevenzione odontoiatrica attivo su tutto il territorio nazionale dal 1980. Succede ormai da 40 anni, ma la campagna del sorriso è un cazzottone tra i denti per chi crede che sia lo Stato ad occuparsene. A differenza di altri Paesi europei, infatti, l’odontoiatria pubblica in Italia non esiste, la salute della bocca è quasi totalmente delegata a servizi privati. Il Sistema sanitario nazionale dovrebbe coprire almeno i minori di 14 anni, a condizione di trovare la struttura che lo faccia e accettando il rischio di uscire dal mal di denti con la sola terapia farmacologica o l’estrazione. Lo Stato che non offre vie di cura non ha neppure un programma nazionale di prevenzione, tanto che anche la “campagna d’ottobre”, cui aderiscono 10mila dentisti privati proponendo una prima visita gratuita (le altre a pagamento), è sponsorizzata da Mentadent, marchio di prodotti per l’igiene orale della multinazionale Unilever.

Eppure in Italia di prevenzione delle malattie del cavo orale ci sarebbe bisogno come il pane, a maggior ragione mentre Covid e crisi spingono gli italiani a rinunciare a cure non urgenti. A certificarlo una volta di più sono i dati di uno studio epidemiologico che rivela un peggioramento nella salute orale dei bambini e ragazzi italiani rispetto ai coetanei residenti in altri Paesi europei. Un peggioramento non omogeneo ma dettato da diseguaglianze culturali, sociali ed economiche. La ricerca è stata appena pubblicata su Scientific Report dai professori Guglielmo Campus, Fabio Cocco, Laura Strohmenger e Maria Grazia Cagetti che fanno parte del Centro di Collaborazione Oms di Milano. E’ durata tre anni, durante i quali i ricercatori sono andati in un gruppo rappresentativo di scuole di tutte le zone d’Italia, da Tolmezzo a Palermo, a spalancare le bocche di 7mila bambini fino ai 12 anni di età. Dopo aver rilevato gli indici d’insorgenza di carie e il livello di gravità delle lesioni del cavo orale, hanno poi rapportato i risultati agli indicatori socieconomici nazionali, constatando lo stretto legame tra ricchezza e stato di salute della bocca.

Non sembra una notizia, ma se l’indicatore medio nazionale è salito di un modestissimo 0,2 rispetto alla rilevazione di 13 anni fa, alcune zone d’Italia sono sotto la soglia di guardia. I dati relativi ai bambini del Sud e delle Isole in particolare sono simili a quelli di nazioni con Pil e Gini Index molto diversi da quelli italiani, analoghi semmai a Romania, Messico e Colombia. La questione non è legata ai “nuovi italiani”, agli immigrati per capirci, ma alla politica sanitaria. “In Italia manca un grande intervento di assistenza pubblica e anche comunicativo per sensibilizzare verso una corretta prevenzione della salute orale” sostiene la professoressa Laura Strohmenger, docente universitaria di Odontoiatria pediatrica. Detta coi numeri, già nel 2008 si calcolava che l’1,5% della spesa sanitaria nazionale è destinata all’odontoiatria pubblica a fronte di 9,6 miliardi di spesa privata per l’odontoiatria. La quantità di prestazioni erogate dal pubblico vede l’Italia tra i livelli più bassi in Europa: 0,6 visite per abitante per anno, a fronte di 1,8 visite in Belgio, 1,4 in Germania e 2,1 in Olanda. Ecco perché la “giornata della prevenzione” suona beffarda.

“Da parte nostra – aggiunge la studiosa – esprimiamo un grande ringraziamento ai dentisti privati che aderiscono al mese della prevenzione; ma qui ci vuole un progetto di odontoiatria di comunità aperto a tutti perché solo così si riducono le diseguaglianze. La fascia di popolazione presa in esame dalla nostra indagine dovrebbe essere tutelata dai Livelli essenziali di assistenza ma ritengo che oggi, i LEA non rispecchino più le vere esigenze della popolazione e quindi neppure quelle dei bambini”. Sono stati formulati molti anni fa in parte corretti prevedendo un apporto (minimale) odontoiatrico, ma “sostanzialmente non danno risposte neppure per la fascia di bambini che dovrebbero tutelare”.

La questione s’infila nel dibattito sulla riorganizzazione della Sanità pubblica innescato dalla pandemia da Covid. “Lo studio deve essere l’occasione per parlare anche di odontoiatria e vuol essere da stimolo a chi deve prendere delle decisioni affinché chieda agli esperti un’analisi più corrispondente alla realtà clinica e definisca interventi efficaci”. Sulla ridefinizione dei livelli si registra un’apertura da parte del ministro Roberto Speranza che il 25 settembre ha incontrato le associazioni odontoiatriche. “Bene che se ne riparli– ragiona la Strohmenger – ma non lo si faccia alla cieca. Lo dico non solo perché in commissione non c’è neppure un odontoiatra, ma perché solo i dati epidemiologici possono indirizzare la risposta ai bisogni della popolazione: ma quali bisogni, se non li misuri? E’ un dato scientifico che la cura in età precoce riduca le malattie in età adulta con relativi costi sociali ed economici. Ed è un investimento dello Stato che non può latitare oltre, senza minare il diritto alla salute”.

Nel settore, va detto, quasi tutto è diventato non-misurabile. Dieci anni fa lo stesso gruppo di lavoro aveva censito gli ospedali pubblici con presidi odontoiatrici. “Già allora si faticava a sapere quanti fossero e la situazione è solo peggiorata”, spiega Guglielmo Campus, coordinatore del Centro Oms e direttore del dipartimento di Medicina Preventiva e Epidemiologia all’Università di Berna. La categoria degli studi dentistici trasformati in cliniche sfugge al censimento. “Sono società di capitali dove il dentista è stipendiato e non risulta più”. Neppure la risposta, oltre al bisogno, è dunque misurabile. La misura dell’abbandono può essere anche questa: lo studio di cui stiamo parlando, che misura lo stato di salute delle bocche dei nostri bambini, era fermo al 2007 e se è stato aggiornato a lo si deve all’impegno volontario dei ricercatori, uno dei quali lo ha anche finanziato di tasca propria facendo una donazione. Servivano grandi risorse? No, è costato cinquemila euro.

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