In vacanza con la mia piccola bimba, i pomeriggi dopo la spiaggia trascorrevano al parco giochi tra le altalene e gli scivoli. Un pomeriggio, i giardini sono stati colonizzati da un gruppo di adolescenti: se ne stavano un po’ distesi sulle panchine, un po’ seduti per terra, con le fidanzatine in braccio e la musica alta dei loro smartphone.

I bambini che forse avevano giocato sugli stessi scivoli e sulle stesse altalene, ormai cresciuti, se ne stavano lì, consegnati ad un’adolescenza che, oltre alla dialettica del conflitto che inevitabilmente la abita, quest’anno patisce anche il limite del contatto e la privazione di quella libertà che è il sogno più potente di quella stagione della vita.

Mentre seguivo le corse spericolate di mia figlia, li ho spiati per un po’. Mi hanno fatto tenerezza, preda di quella noia metafisica che un tempo formava le coscienze, ispirava i desideri e forse oggi invece è solo vuoto di un futuro sempre più difficile, sempre più social, eppure sempre più solo.

Mentre le ragazzine si mettevano il rimmel, i maschi giocavano a mixare il rap più sboccato con Toto Cutugno e ridendo intonavano in modo emblematico “lasciatemi cantare, sono un italiano”. La sera, in giro per il paese, ancora all’inseguimento della piccola in corsa tra giostrine e negozi di caramelle, ho visto un altro gruppo: potevano essere gli stessi, chissà, ma questa volta un po’ più duri. Oltre ai brufoli, erano zeppi di bottiglie di birra e si passavano il rum in mani non proprio di maggiorenni. Rabbiosi, urlanti, in cerca di qualcuno da provocare e magari anche di una rissa coi fiocchi.

“Ogni sera succede una rissa, o spaccano qualcosa, sa?” Mi dice con tono sconsolato la cameriera della pasticceria. Due facce, dei nostri giovani, come il giorno e la notte. Sui Navigli a Milano è la stessa cosa ogni sera. E sono anni: giovani gettati nel vuoto di un futuro senza sogni e di un passato senza radici.

Poi muore Willy, troppo gracile per resistere ai colpi di chi si allena nel culto ossessivo di un corpo tatuato e muscoloso che dia l’illusione del potere, il senso di essere i migliori, il gusto di incutere paura ed essere rispettati per questo. E Willy inevitabilmente diventa una icona, la vittima paradigmatica di quel degrado che, oltre alla giustizia dei tribunali, chiede una riflessione alla società.

Siamo davvero diventati questo? È questa la fotografia dei nostri giorni? Diversi anni fa, quando mi trovai ad essere Perito del Giudice nel processo Boettcher Levato, la cosiddetta coppia dell’acido, la dinamica narcisistica di estetizzazione della violenza e di affermazione di una identità attraverso il testosterone e i muscoli era sovrapponibile: culto del corpo, arti marziali stravolte nel loro significato più profondo e strumentalizzate al servizio della mera violenza. In fondo quel che conta è farsi notare, dimostrare supremazia, meglio ancora se su un soggetto inerme e con il plauso del branco.

Questa volta persino il mondo della musica ha voluto insorgere in maniera esplicita contro l’esercizio della brutalità e il sopruso sulla diversità. La domanda più scottante riguarda però quello che accadrà quando Willy sarà dimenticato o magari se ne conserverà la memoria in una ricorrenza, ma il resto dei giorni tornerà ad essere inghiottito dalla normalità: quando questo accadrà, la normalità sarà la tacita accettazione della barbarie a cui sembra che la società si sia abituata? Perché per quanto giustamente e doverosamente imputabili, anche i fratelli Bianchi sono figli di un percorso educativo e familiare, sono figli di questa società e delle sue intercapedini sempre più intricate di ignoranza e violenza.

Se questo è vero, come sono veri i 400.000 adolescenti italiani alcoolizzati e gli undicenni che consumano stupefacenti, è necessario farsi carico dei “valori” che hanno soppiantato i Valori: la mascolinità violenta e la femminilità svilita, i muscoli, i tatuaggi, il lusso, il branco, il tutto corredato da quanti più like possibili, hanno soppiantato la bellezza, la poesia, la cultura, l’arte.
Se Willy fosse nostro figlio? E se i fratelli Bianchi lo fossero?

Gli antropologi studiano le civiltà e sanno bene che ogni società ha i suoi riti, i suoi simboli, che sono condivisi da un inconscio che Jung ha chiamato collettivo. Guardo mia figlia: dopo i giochi sfrenati dorme. Cosa sogna? Che cosa si possono permettere di sognare i figli della nostra società e quali dei loro sogni difendiamo? I social possono veicolare l’odio oppure la speranza che la bellezza, l’arte, la cultura ci salvino ancora, come hanno salvato i sogni di tutti i popoli del mondo sino ad oggi.

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