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Visco (Bankitalia): “Davanti al progresso tecnologico le imprese italiane hanno chiesto costi del lavoro più bassi invece che investire”

Il governatore di Via Nazionale: "Con il Covid il pil italiano è tornato ai livelli del 1993 e in termini pro capite è sceso ai valori degli anni Ottanta. Le ragioni di questo salto sono duplici: la prima è la portata del collasso causato dalla pandemia, la seconda il fatto che già dagli anni Novanta l'Italia è cresciuta pochissimo". Dietro, ha detto, ci sono pesanti responsabilità delle aziende che avrebbero invece potuto innescare un circolo virtuoso di domanda e offerta di istruzione superiore
Visco (Bankitalia): “Davanti al progresso tecnologico le imprese italiane hanno chiesto costi del lavoro più bassi invece che investire”
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Indietro di ventisette anni se si guarda al livello complessivo del pil. Trenta se si prende in considerazione il prodotto pro capite. E’ l’impatto del Covid descritto dal governatore di Bankitalia Ignazio Visco, collegato con l’EuroScience Open Forum di Trieste. Una “botta” che dipende certo dalla violenza con cui la pandemia ha colpito le attività produttive. Ma se le lancette dell’economia italiana sono tornate così indietro, ha chiarito Visco, è anche per un motivo storico che precede di molto il coronavirus: dagli anni Novanta la Penisola è cresciuta pochissimo. E dietro questa stagnazione ci sono pesanti responsabilità delle imprese: “La loro reazione alla grande trasformazione indotta dal progresso tecnologico e dalla globalizzazione negli anni Novanta è stata la richiesta di costi del lavoro più bassi, invece di un maggiore e adeguato investimento nelle nuove tecnologie che avrebbe creato domanda di lavoro altamente qualificato. Innescando magari un circolo virtuoso di domanda e offerta di istruzione superiore a beneficio del mondo del business e della società nel suo complesso”.

Questo atteggiamento nei confronti della concorrenza internazionale, legato a doppio filo con il “nanismo” del sistema produttivo italiano – correlato a sua volta alla bassa capacità di introdurre buone pratiche manageriali, adottare nuove tecnologie e investire in capitale umano – ha messo in moto un circolo vizioso di salari bassi e bassa richiesta di lavoratori qualificati. Che sono “tra le ragioni che incoraggiano un alto numero di italiani, specialmente giovani ad alto tasso di istruzione, ad emigrare. Tra il 2009 e il 2018, 816mila italiani si sono trasferiti in un Paese straniero contro i 333mila che sono rimpatriati in Italia”. In parallelo ci sono anche le “colpe” della pubblica amministrazione: “E’ essenziale che si attuino riforme volte a creare un ambiente più favorevole alle imprese, aumentando la qualità e l’efficienza dei servizi pubblici, riducendo gli oneri amministrativi e burocratici, abbassando il peso dell’evasione fiscale, della corruzione e di altre attività criminali”. Riforme che però “per un Paese avanzato come l’Italia non sono sufficienti”.

“Quando un Paese si avvicina alla frontiera tecnologica”, ha continuato Visco, “i suoi salari non consentono più una strategia di sviluppo basata solo sulla competizione di costo e di prezzo. In questo contesto, la crescita economica dipende dalla capacità di incorporare e stimolare l’occupazione, cosa che richiede una spesa adeguata in nuove tecnologie e sulla quantità e qualità degli investimenti in istruzione. I ritardi accumulati nell’innovazione e istruzione e le loro interrelazioni con la struttura del sistema produttivo sono molto probabilmente alla radice della debole crescita dell’Italia”. Che sconta un livello di spesa in ricerca e sviluppo storicamente basso: è sui gradini inferiori della classifica Ocse sugli investimenti in quel campo.

In conclusione, ha sintetizzato Visco, a lungo termine una maggiore produttività è l’elemento chiave per lo sviluppo economico. E per un percorso di crescita sostenibile, alle misure necessarie per affrontare i problemi creati dalla crisi pandemica devono essere affiancati interventi per affrontare gli ostacoli che frenano l’innovazione. Tenendo però conto di un’altra priorità, “una dimensione in cui il Pil non funziona bene come misura del benessere”: il suo impatto sull’ambiente. “È tempo di indirizzare risorse e sforzi crescenti per affrontare gli effetti collaterali dello sviluppo economico”.

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