Tagliare l’orario di lavoro a parità di stipendio. L’idea non si può dire nuova, considerato che nel 1928 John Maynard Keynes profetizzava che entro un secolo la settimana lavorativa si sarebbe fermata a 15 ore. Ma ora quella suggestione – uno dei cavalli di battaglia di Pasquale Tridico già da quando era ministro del Lavoro in pectore di un potenziale governo monocolore M5s – è tornata alla ribalta come possibile chiave per la ripresa post Covid. Complici l’uscita della premier finlandese Sanna Marin – che ha rilanciato la proposta di ridurre le ore giornaliere da otto a sei ore – e soprattutto la proposta del potente sindacato metalmeccanico tedesco Ig Metall di arrivare a una settimana lavorativa di quattro giorni. Un’estensione dell’accordo per le 28 ore settimanali (su base volontaria) raggiunto due anni fa per il Land del Baden Württemberg.

Il ministro socialdemocratico del Lavoro, Hubertus Heil, ha già dato il suo via libera. Ma il dibattito è aperto anche in Gran Bretagna, dove un gruppo di deputati ha scritto al cancelliere dello Scacchiere (l’equivalente del nostro ministro del Tesoro) Rishi Sunak per chiedergli di considerare una settimana lavorativa di quattro giorni “in modo che l’occupazione sia ripartita in modo più equo”. Suggerimento identico a quello arrivato dalla premier neozelandese Jacinda Ardern, che ha chiesto alle aziende di prendere in considerazione l’ipotesi per dare una spinta al turismo interno e al tempo stesso migliorare la conciliazione vita-lavoro.

In Italia il progetto (per molti un’utopia) ha da tempo tra i principali sostenitori Domenico De Masi, professore emerito di Sociologia del lavoro alla Sapienza di Roma, secondo cui “lavorare meno” è la strada maestra per “lavorare tutti“. Lo scorso anno De Masi ha presentato con Nicola Fratoianni (Leu) una proposta di legge ad hoc, spiegando che con meno ore di lavoro la produttività ne avrebbe addirittura guadagnato. Come dimostrato – è la sua tesi – dal caso della Germania, in cui stando a dati Ocse il lavoratore medio lavora solo 1.386 ore l’anno contro le 1.718 dell’Italia. Ma anche in Francia (1.505 ore l’anno) e Gran Bretagna (1.538 ore) l’impegno richiesto ai dipendenti è più gravoso che nella Penisola. Ovviamente la differenza di produttività è influenzata da un insieme di fattori che va dalla dotazione infrastrutturale – collegamenti stradali ma anche infrastrutture tecnologiche – alla qualità della pubblica amministrazione. Resta il fatto che la suggestione di poter aumentare l’occupazione suddividendo tra più “teste” un dato monte orario ha un innegabile appeal, tanto più ora che la pandemia minaccia di lasciare dietro di sé più di 1 milione di disoccupati in più.

I rappresentanti dei lavoratori chiedono di affrontare il tema: “Sono mesi che la Uil chiede una riduzione dell’orario a parità di salario. In Germania e in Finlandia se ne discute concretamente e l’Unione europea studia seriamente l’ipotesi”, ha ricordato venerdì Pierpaolo Bombardieri, segretario generale della Uil. “La questione va affrontata e risolta contrattualmente dalle parti sociali. Un sostegno da parte dello Stato, facendo leva sulle risorse europee e attivando meccanismi di defiscalizzazione o di decontribuzione, potrebbe spianare la strada a questa soluzione”. Il governo a dire il vero si è già mosso in quella direzione con i provvedimenti per fronteggiare l’emergenza: il Fondo nuove competenze, creato presso l’Anpal dal decreto Rilancio e rifinanziato fino a 730 milioni di euro con il decreto Agosto, prevede che i contratti aziendali e territoriali possano prevedere una rimodulazione dell’orario senza decurtazioni di stipendio ma anche senza gravare sui bilanci aziendali. Si tratta infatti di “sostituire” una percentuale di ore con corsi di formazione, per i quali il dipendente viene pagato dallo Stato. L’obiettivo dichiarato dalla ministra Nunzia Catalfo è duplice: “Aumentare le occasioni di progressione professionale o di nuovo impiego, scongiurando così lo spettro della disoccupazione“.

Con la legge di Bilancio lo strumento potrebbe diventare strutturale ed essere collegato più direttamente alla creazione di nuovi posti, peraltro già promossa con la decontribuzione offerta a tutti i datori di lavoro al Sud. Tra le opzioni allo studio c’è quella di garantire un salario invariato utilizzando i prestiti del programma anti-disoccupazione Sure. Che però sulla carta devono servire per finanziare cassa integrazione e altri ammortizzatori necessari per garantire un paracadute a chi è stato costretto a fermarsi causa Covid e lockdown. Nelle prossime settimane, quando il lavoro sulla prossima manovra e sul Recovery plan italiano entrerà nel vivo, si capirà se il governo intende accelerare su questo fronte. Oltralpe, va detto, il dibattito si è orientato in tutt’altra direzione: per il presidente della Confindustria francese Geoffroy Roux de Bézieux occorre riflettere sulle 35 ore perché dalla crisi si esce solo lavorando di più. E Emmanuel Macron nei mesi scorsi si era detto d’accordo.

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