La lista era piuttosto lunga. Comprendeva le parate di Oblak, la nuova posizione di Llorente, la panchina di lusso biancorossa, l’assenza di Timo Werner, l’inesperienza degli avversari. Il giorno prima del quarto di finale di Champions League fra Atletico Madrid e Lipsia, Marca si era divertito a mettere l’una dietro l’altra tutte le parole chiave che sembravano suggerire una facile vittoria dei colchoneros. Eppure il quotidiano spagnolo si era dimenticato del concetto più importante: quello di spazio. Una parola che Julian Nagelsmann ha ripetuto spesso negli ultimi giorni, una parola che è riuscita a dribblare il cholismo. Contro la squadra di più ermetica della Champions, contro il club che più di ogni altro è ossessionato dalle linee di copertura, che ha eletto il non far giocare l’avversario a manifesto programmatico, il Lipsia ha usato lo spazio come apriscatole per arrivare fino alla porta di Oblak. E ci è riuscito. Mai come negli ultimi anni le partite di Champions League hanno assunto il valore di scontro fra filosofie opposte e inconciliabili. E dopo il 2-1 all’Atletico, Julian Nagelsmann è diventato il profeta (non più solo in patria) di un calcio vertiginoso, cibernetico, scientifico, maniacale.

Un calcio che è assembramento, dove una squadra è in grado di andare oltre alla somma della tecnica delle individualità che la compongono, dove il dettaglio finisce per fare la differenza, dove il budget ridotto sul mercato non significa abdicare alla possibilità di competere con i club più opulenti (ed è per questo che ora la semifinale contro il Psg assume un fascino particolare). Un calcio a immagine e somiglianza dell’allenatore che lo ha plasmato. Ma soprattutto, un gioco che non è solo filosofia ma studio, scienza applicata. Ai tempi dell’Hoffenheim, Nagelsmann introduce un modo di allenare iper tecnologico: fa riprendere gli allenamenti dai droni, sceglie i nuovi acquisti guardando dvd indicizzati in base alle caratteristiche che servono alla squadra. Poi fa installare sul campo di allenamento un maxischermo 6 metri per 3 e quattro telecamere. Il ledwall diventa fondamentale per mostrare ai suoi giocatori errori di posizionamento, i movimenti che saranno chiamati a compiere nelle due fasi di gioco e le caratteristiche degli avversari.

Le statistiche diventano parte essenziale del lavoro settimanale. Ce n’è una che testimonia alla perfezione la sua cura per i dettagli: Nagelsmann e il suo staff misurano per quanto tempo ciascun giocatore è impossibilitato a ricevere un suggerimento dal compagno perché gli avversari bloccano la linea di passaggio. Ma soprattutto, l’Hoffenheim diventa una delle prime squadre al mondo ad usare Footbonaut, una gabbia di 20 metri per 20 delimitata da una griglia. Ogni giocatore deve stoppare la sfera lanciata da una macchina sparapalloni e calciarla nel riquadro che si è acceso. Un modo per allenare tecnica e riflessi allo stesso momento. Ciascun componente della rosa segue un programma personalizzato in base al ruolo che ricopre e alle caratteristiche da migliorare.

Il vero cortocircuito è più recente. In questi giorni Julian Nagelsmann è stato definito spesso come un predestinato. Ma non c’è etichetta più inesatta per descriverlo. Perché l’allenatore che con i suoi 33 anni è il più giovane tecnico ad essere arrivato a una semifinale di Champions, è uno che con il destino ha sempre fatto a pugni. Non ha creduto di essere un predestinato a vent’anni, quando ha dovuto affrontare il suicidio del padre. Non ci ha creduto poco più tardi, quando dopo aver indossato la fascia di capitano dell’Under 17 e aver disputato una buona stagione con la Primavera del Monaco 1860 si rompe un ginocchio. Il dolore non gli dà tregua. E giocare diventa una sofferenza troppo grande. Le operazioni servono sono ad anestetizzare i suoi tormenti con l’illusione di poter tornare in campo.

A 20 anni Nagelsmann è già un ex. “Quella che il bruco chiama fine del mondo il resto del mondo chiama farfalla”, scriveva Richard Bach in una frase quasi da Bacio Perugina. Per Nagelsmann però diventa una verità. Decide di tornare all’Augsburg, la squadra dove aveva iniziato a giocare. Ha bisogno di ritrovarsi. Ha bisogno di rilanciarsi. Inizia ad allenarsi con le riserve, ma è tutto tempo sprecato. Decide di smettere quando l’allenatore dell’Augsburg II gli avvicina e lo prende da parte. Si chiama Thomas Tuchel, lo stesso Thomas Tuchel che oggi incontrerà da avversario nella semifinale di Champions League contro il Psg, e ha un’offerta per lui. Il tecnico gli chiede di andare a studiare gli avversari per conto suo. E di redigere dei rapporti. Nagelsmann inizia a girare con dei quaderni voluminosi. Su un lato annota tutte le caratteristiche dei giocatori che osserva. Dall’altro descrive i loro punti deboli e come metterli in difficoltà. Poi torna in sede e mostra i suoi appunti ai calciatori dell’Augsburg.

La cosa funziona. Tanto che Tuchel lo prende un’altra volta da parte e gli dice di diventare allenatore. La società lo accontenta e gli offre la panchina dell’Under 12. Troppo poco per uno come lui. Così Nagelsmann compie un’altra volta il tragitto inverso. Di nuovo Monaco 1860. Di nuovo l’Under 17. Ma stavolta come tecnico. Julian ci resta due anni. Fino a quando il suo telefono non inizia a squillare. È l’Hoffenheim. E gli offre la panchina dell’Under 16. Una stagione dopo ha il pieno controllo del settore giovanile. Poco dopo, nel 2014 il Bayern Monaco lo convoca in sede. In una stanza ci sono il presidente Karl-Heinz Rummenigge, il direttore sportivo Matthias Sammer e l’allenatore Pep Guardiola. Sembra l’incipit di una barzelletta. Invece è un colloquio di lavoro. La triade gli chiede di diventare team manager della squadra under 23 del club più blasonato di Germania. Nagelsmann ascolta, sorride, ringrazia e rifiuta. Non ha nessuna fretta. Non ha nessuna intenzione di bruciarsi.

Meglio l’Hoffenheim, meglio la provincia. Almeno per un po’. Una scelta che ha confermato anche nel 2018. Stavolta a convocarlo in sede è stato il Real Madrid. Altri discorsi da ascoltare, altri sorrisi, altri ringraziamenti, un altro rifiuto. “A Lipsia ho la possibilità di sbagliare e imparare – spiega – Questo non accade nei grandi club. Lì se non vinci loro non ti chiedono come mai, ti licenziano”. Eppure non è un addio, ma solo un arrivederci; “Siamo rimasti d’accordo per un nuovo colloquio in futuro, nel caso in cui avessero bisogno di un allenatore”, ha raccontato qualche giorno fa. Tutto con semplicità, tutto senza rimpianti. Perché non è vero che i treni passano solo una volta nella vita. La svolta arriva nel 2016. Huub Stevens, il tecnico dell’Hoffenheim, ha dei problemi cardiaci. La dirigenza, che aveva pensato di promuovere Nagelsmann in estate, decide di anticipare.

Quando quel ragazzo di 28 anni si siede per la prima volta in panchina l’Hoffenheim è penultimo con 14 punti in 20 partite e 7 lunghezze di ritardo dalla zona salvezza. A fine stagione saranno salvi, con un onorevole quindicesimo posto. Nelle tre stagioni successive Nagelsmann guida l’Hoffenheim al quarto, al terzo e al nono posto. Nel 2018, dopo il no al Real, Ralf Rangnick, il demiurgo del modello Red Bull, lo sceglie come suo successore al Lipsia. Qui Nagelsmann si sente libero. Torna a casa con uno skateboard elettrico, quando può si rifugia sulle montagne vicine alla città e spegne lo smartphone. Niente telefonate, niente messaggi. Solo snowboard, un po’ di sci, un’arrampicata. E tanti tramonti da ammirare. “Sono come un pasticciere, mescolo cose diverse, le metto in forno e vedo cosa viene fuori”. Nagelsmann è l’espressione di un progetto partito molto prima del suo arrivo ma che ha trovato in lui il proprio culmine. Prima della gara contro l’Atletico Marca ha pubblicato un’altra statistica interessante: in tutta la sua storia il Lipsia ha giocato meno partite (424) rispetto a quelle disputate dal solo Koke con la maglia dei materassai (456). Dalla quinta serie tedesca alle prime quattro d’Europa in appena 11 anni. Ma per Nagelsmann sembra solo l’inizio.

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