Sono in vacanza in un posto dove non c’è niente. È un minuscolo paesino tra la provincia di Genova e quella di Piacenza, in una valle nei pressi della Val Trebbia. In inverno non c’è nessuno, la popolazione residente se n’è andata negli anni Sessanta, per trasferirsi in gran parte a Genova. Tornano in estate, per sfuggire al caldo cittadino, ridando vita al paese.

Da qui viene la famiglia di mia moglie che, da bambina, passava qui le sue estati, quando la scuola finiva a giugno e ricominciava a ottobre. Non c’è niente significa: niente negozi, locali, giornali, niente linea per i cellulari e nessuna copertura per la rete; bisogna fare la spesa nel paese più vicino, a circa 15 km di distanza, e percorrere una stradina stretta, lunga e tortuosa, asfaltata solo in parte, che sale a 1500 m e scende in una valle a 1000 m.

D’inverno la neve isola il paese, ma con il riscaldamento globale l’isolamento è sempre più breve. I boschi di faggi, tagliati in passato per fare carbone, stanno ricrescendo e la boscaglia di 30 anni fa sta prendendo la forma del bosco colonnare tipico delle faggete. Ci sono: cinghiali, daini, istrici, aquile, ghiri, faine, ramarri, vipere (poche), scoiattoli, lupi, lepri, ghiandaie, upupe, gufi reali, allocchi e altri uccelli di cui non riconosco il canto (sono un biologo marino e sui monti sono un dilettante). Persone poche, pochissime.

Intorno al paese gli abitanti temporanei allestiscono orti per limitare i viaggi nel paese vicino, e coltivarli è una delle attività principali, oggetto di maniacali attenzioni. Le case sono addossate le une alle altre, di pietra, anche se qualche orrore anni Sessanta c’è. Le pietre grigie dei tetti sono state sostituite con tegole rosse. Due case abbandonate sono venute giù, ma il resto del paese “tiene”. Io passo parte delle mie giornate nei boschi.

Ho scoperto la Via Bella, la principale strada di collegamento del paese con il resto del mondo prima che, sempre negli anni Sessanta, fosse costruita una strada percorribile con automobili. La via Bella serviva per le grandi slitte trainate dai buoi, è una salita ripida, con tornanti, lastricata di pietre grigie. La boscaglia se l’era ripresa e, con un machete, l’ho tutta ripulita nel corso di tre estati. La furia dell’acqua portata dai temporali invernali ha distrutto un ponte di pietra che attraversava un canalone e lì ho steso una fune a cui ci si può aggrappare per non scivolare giù.

Ogni anno la mia missione è di ripulire la Via Bella, perché la foresta è veloce nel riprendere il suo spazio. Torno a casa pieno di graffi, con i vestiti strappati. Penso a chi ci viveva, a chi ha costruito quella strada, pietra per pietra, costruendo piccoli terrazzamenti fatti con grosse pietre messe una sull’altra, in cui si coltivava il grano. La foresta si riprende tutto, e ogni tanto quei muri spuntano dalla boscaglia.

Nelle mie “pulizie” ogni tanto trovo strade laterali, e mi faccio prendere dalla curiosità di vedere dove portano. Non portano da nessuna parte. Gli ultimi vecchi del paese, interrogati, mi dicono che sono strade che vanno ai quelli che un tempo erano terreni coltivati, e finiscono lì. Ne parla Heidegger di queste strade, distinguendo linee di pensiero che portano altrove, come la Via Bella, e altre che non portano da nessuna parte, come queste vie poderali.

Mi piace fare il filosofo col machete, e mi vengono nuove idee mentre cerco di non cadere in un burrone. Penso che ci potrei vivere, qui. Ma in paese non c’è internet. Bisogna salire al passo, quello a 1500 m, per avere copertura. Il 29 luglio ho fatto esami da lassù, e anche una riunione organizzativa. Ho rivisto su Google Drive le versioni del Piano Nazionale della Ricerca a cui sto dando un contributo per la parte marina, e sono stato intervistato da una giornalista che voleva sapere dell’immortalità. Ho risposto alle decine di email che si accumulano se sto anche solo due giorni senza guardare la posta e da lì sto mandando questo post. Se ci fosse copertura, penso che ci potrei abitare, in questo paesino.

Durante i mesi di reclusione causa Covid-19 ho svolto regolarmente il mio corso universitario, ho partecipato a innumerevoli riunioni in mezza Europa, mi sono tenuto aggiornato con lo sviluppo della ricerca che pratico e ho scritto diversi contributi scientifici. Oramai sono “grande” e non vado quasi più sott’acqua, magari in acque infestate dagli squali, in Papuasia. L’ho fatto per trent’anni e ora sto “rimettendo a posto le cose”, e il mio lavoro è svolto in gran parte al computer. Se vivessi nel paesino sperduto che tanto mi piace potrei fare esattamente le stesse cose che faccio nel mio studio all’università, se solo ci fosse copertura.

I vecchi del paese piano piano muoiono e i figli non sempre sono entusiasti di questa vita. Mettono le case in vendita. I prezzi? Quindici, ventimila euro. Magari se ne spendono altri diecimila per ristrutturare. Niente di paragonabile alle follie cittadine. Queste valli si sono spopolate, a parte una vita effimera in estate. Ma il lavoro intelligente potrebbe farle rivivere, se solo ci fosse linea. Pare che la copertura digitale di tutto il territorio nazionale sia nei piani governativi. Ci vorrebbe anche un piano di ristrutturazione dei paesini abbandonati, con incentivi a chi volesse tornare a popolarli.

Una vita rural-high tech (forse me lo sono inventato ora). Si parla di colonie su altri pianeti, per dare una seconda possibilità alla nostra specie. Una follia totale, visto che la nostra specie non può vivere senza la biodiversità e gli ecosistemi di questo pianeta e solo chi non capisce nulla di ecologia ed evoluzione può pensare di trasferire gli ecosistemi, o di poterli ritrovare belli pronti per noi su un altro pianeta.

Non c’è il pianeta B e stiamo spendendo quantità enormi di denaro per cercare quello che non c’è. Il pianeta B sono i paesi abbandonati, dove i bambini potrebbero avere un’infanzia felice, magari seguendo lezioni su grandi schermi. Dove la spesa si potrebbe fare con i droni, e i nuovi contadini laureati potrebbero alternarsi tra computer, zappa e machete. Altro che colonie su Marte!

Ah, il paesino si chiama Suzzi.

Articolo Precedente

Rifiuti, il campionato mondiale per raccoglierli dai boschi alle strade. “Amare l’ambiente passa anche da una corsa con classifica”

next
Articolo Successivo

Sala, il futuro di Milano è verde? No, rosso gamberone

next