Cosa vuole dirci Franco Bernabè con quel disegno di Marx e Engels sulla copertina del suo libro? La chiave è nelle tre parole sottostanti l’immagine dei due mostri sacri e nelle prime due pagine di A conti fatti. Quarant’anni di capitalismo italiano, portato in libreria da Feltrinelli e curato da Giuseppe Oddo, giornalista raffinatissimo esperto dei poteri economici italiani.

Wir sind unschuldig, “Siamo innocenti”, è questa la frase scritta con mano malferma sotto il monumento in bronzo posto dalle autorità berlinesi in “una posizione discreta, forse consapevoli dei primi scricchiolii del sistema” e che rende la copertina una sorta di dedica dell’autore al nemico battuto, frantumato dalla potenza del capitalismo che ha portato prosperità e sviluppo alla umanità.

Quell’immagine malinconica è, insomma, un tributo al sistema occidentale di cui Franco Bernabè è stato tra i più apprezzati e originali interpreti – a metà degli anni ’90 uno dei pochi capi azienda che girava con un portatile e lo sapeva usare.

Il manager, espressione di quei ristretti circoli occidentali che si riuniscono a Bilderberg dal lontano 1954 per valutare gli obiettivi del sistema e selezionarne la classe dirigente (scontata da parte sua, ma non credibile, la banalizzazione dei famigerati incontri nell’hotel austriaco), racconta la recente storia del capitalismo nostrano alla luce della sua personale esperienza di vita che si snoda dalle origini modeste, figlio di un capostazione distaccato a Innsbruck, fino alle vette dei due bastioni dell’economia italiana, Eni e Telecom.

Deve aver fatto una gran fatica Oddo a rimettere a posto le carte dell’archivio di Bernabè (chissà se il manager si è tenuto qualcosa in cassaforte) ma ne è valsa la pena perché il libro racconta pagine intricate e importantissime di storia nazionale ancora oggi parte della cronaca viva del Paese: al centro di tutto il processo di privatizzazioni che segnò la fine della Repubblica dei partiti.

È stato realizzato sotto la furia ideologica o è stato un processo guidato dal buonsenso? Naturalmente Bernabè racconta la assoluta necessità per l’Italia di sottrarre le aziende alla volatilità se non alla superficialità o all’incompetenza delle decisioni politiche e di sottoporle al controllo del Codice civile e del mercato.

Il sistema delle Partecipazioni statali aveva ormai perso la straordinaria capacità dei padri fondatori – fra tutti Alberto Beneduce e Enrico Mattei – e, assicura Bernabè, non poteva più reggere il vecchio schema degli anni ‘50: lo Stato presente nell’industria di base e nelle banche e i privati nel settore dei beni durevoli. L’inevitabilità delle privatizzazioni resta anche per Bernabè, il più integerrimo uomo del capitalismo italiano, un mantra, una verità da prendere o lasciare.

Perché non poteva essere lo Stato a risanare le aziende? La risposta sarebbe oggi tanto più necessaria mentre il ruolo dello Stato si rende indispensabile al punto che il dibattito pubblico accetta di riflettere, se non sulle nazionalizzazioni – nella seconda Repubblica una bestemmia – almeno sul ritorno della guida pubblica nelle aziende cruciali.

L’ingresso in Eni del manager venuto dal gelo di Innsbruck con la sua inossidabile fede nelle regole della concorrenza pone Bernabè dentro una zona franca del capitalismo italiano: infatti, ha guidato il gioiello italiano rimasto nelle mani pubbliche risanandolo e permettendo al colosso di restare protagonista sulla scena internazionale e poi, vinta la sfida, è passato a Telecom, l’azienda delle telecomunicazioni mortificata dalle privatizzazioni, ingaggiando un duello epocale contro l’Opa dei capitani coraggiosi sponsorizzata sciaguratamente dal primo presidente del Consiglio ex comunista Massimo D’Alema sotto la parola d’ordine dell’italianità del futuro di Telecom.

Una operazione che non aveva nulla a che fare con il futuro delle nostre telecomunicazioni: “Al di là dell’italianità, l’obiettivo del governo era un altro: dare una lezione alle grandi famiglie del capitalismo industriale con gli strumenti più aggressivi del capitalismo finanziario, rendendo l’operazione più attraente per il mercato”, dando fiducia ad una cordata speculativa-parassitaria, in buona sostanza. Ricorda Bernabè, impietoso, l’invenzione dell’espressione “rude razza padana” coniata da D’Alema per la cordata di Colaninno – e scippata al filosofo Mario Tronti che qualche decennio primo la usò per definire l’operaio-massa.

Pagine davvero imperdibili quelle sullo sporco affare Telecom nelle quali spicca l’unico apprezzamento di Bernabè per un ex sindacalista della Fiom, oggi dirigente di Potere al Popolo, Giorgio Cremaschi, il solo che denunciò, mentre la sinistra si infervorava per l’Opa su Telecom e nel Canavese si consumava il dramma di Op Computers, “l’ipocrisia di chi negava a Olivetti, per non rischiare di deprimere le quotazioni, la possibilità di investire una manciata di miliardi di lire nel salvataggio delle attività che ne aveva fatto negli atti Ottanta uno dei protagonisti mondiali dell’informatica”.

Il libro è ricchissimo di particolari, con i quali dovrà fare i conti chiunque voglia rileggere quegli anni, e la visione del capitalismo di Bernabè è segnata da un incrollabile ottimismo per le sorti del sistema senza mai indugiare sugli effetti perversi della caduta tendenziale del saggio di profitto: davvero quel signore con la barba in copertina non ha più niente da dirci?

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