Gli occhi spiritati di Schillaci per un rigore non dato. La serpentina di Baggio contro la Cecoslovacchia. Le feste in piazza dopo le vittorie azzurre. Notti magiche prima della serata tragica. Napoli divisa. Maradona e Caniggia e Goycochea. Poi l’uscita sbagliata di Zenga e la delusione, forse la più grande di sempre, per l’eliminazione in semifinale. Sono le immagini di copertina di un ipotetico libro dal retrogusto amaro. Titolo possibile: ‘Mondiali Italia ’90, storia di un’occasione persa’. Perché l’eredità del torneo non si misura con il misero terzo posto della nazionale di Vicini. Il flop fu soprattutto organizzativo: tra costi esplosi e ritardi, le opere realizzate (almeno quelle che non sono state abbattute) erano e restano l’emblema dello spreco. Eppure fu un’edizione epocale, anche e soprattutto dal punto di vista sociale e geopolitico. A trent’anni esatti da allora, raccontiamo – a modo nostro – l’Italia, l’Europa e il mondo di quei giorni. Le storie, i protagonisti, gli aneddoti. Di ciò che era, di cosa è restato. (p.g.c.)

È un Brasile diverso quello che sbarca in Italia per la Coppa del Mondo 1990. Il selezionatore Sebastiao Lazaroni l’anno precedente l’ha portato a vincere la Coppa America, utilizzando per la prima volta nella storia della Selecao il libero. Non era mai successo che la Nazionale verdeoro si schierasse con un difensore staccato di qualche metro rispetto ai colleghi di reparto. Lazaroni andava contro la tradizione e per questo veniva costantemente criticato.

Prima di stabilire il quartiere generale ad Asti (il girone lo avrebbe giocato a Torino) la Nazionale fece un preritiro a Gubbio, dove in amichevole venne sconfitta da una selezione locale ribattezzata Top Umbria (1-0 gol di Ciccio Artistico). Una partita che nulla contava, la Fifa aveva impedito alla Federazione perfino di utilizzare la maglia ufficiale. Ma che servì a scatenare attorno alla squadra e al suo allenatore ancora più polemiche. Quella era una formazione con talento, soprattutto in attacco. Aveva Careca, Muller, Renato Portaluppi e i giovani Romario e Bebeto. Il centrocampo però era, con Dunga e Alemao, soprattutto di quantità. E il numero 10? Silas, spesso lasciato tristemente in panchina. A giocare da libero, trasformato in questo nuovo ruolo proprio da Lazaroni, Mauro Galvao del Botafogo.

Lazaroni andò contro la storia del suo Paese, seguendo le tendenze tattiche di quel mese mondiale. Lo spiega bene Furio Zara sul suo libro, appena pubblicato da Baldini+Castoldi, Le nostre notti magiche: “Le Nazionali si schierano quasi tutte con la difesa a cinque, dalla Germania al Brasile, dall’Argentina all’Inghilterra, modellando la squadra con un 5-3-2 che diventa la nuova carta d’identità condivisa. Torna di moda – inaspettatamente – il ‘libero’, che ora viene affiancato da due stoppercentrali difensivi mentre sulle fasce stazionano i terzini, che già qualcuno chiama esterni. Si sta più coperti, si è molto preoccupati di non prenderle. Non è un caso che questo sia il Mondiale delle difese, il più povero della storia come media gol (2,21 a partita)”.

In un girone con Svezia, Scozia e Costarica la Selecao riuscì a qualificarsi agli ottavi. A Torino affrontò l’Argentina, giocando la migliore partita da quand’era iniziato il mondiale. È la gara in cui Branco bevve acqua da una borraccia proveniente dalla panchina argentina, ingerendo così qualcosa di simile a un sonnifero. Avrebbe strameritato la vittoria, il Brasile. Ma con una magia Maradona lanciò in porta il fido Caniggia, che insaccò alle spalle del portiere Taffarel. Nulla aveva potuto la difesa, Mauro Galvao compreso. La Nazionale brasiliana se ne tornò a casa, dove Lazaroni subì minacce di morte. Rimase invece in Italia, in veste di giornalista tv, Joao Saldanha, il vecchio selezionatore che aveva creato nel 1970 il Brasile dei 5 numeri 10. Il 12 luglio l’ex ct morirà a Roma all’età di 73 anni. Si concluse nel peggiore dei modi un’estate mondiale davvero sfortunata per il calcio brasiliano.