Nel gioco del poker effettuare un all-in significa puntare tutte le proprie fiches: o la va, o la spacca, in una sola giocata. Nel momento in cui il giocatore versa nel piatto tutto il proprio ammontare, si priva della disponibilità delle proprie fiches, ma resta pienamente in partita fino a quando non vengono svelate le carte. Il default tecnico a cui si è consegnata l’Argentina, non ripagando gli interessi su tre blocchi obbligazionari e invitando le controparti a raggiungere un accordo di ristrutturazione del debito, ha fino a questo momento tutte le sembianze di un all-in, che tiene in piedi Buenos Aires a tutti gli effetti.

“Stiamo giocando a poker, e non con dei bambini”, aveva detto il presidente Alberto Fernandez all’inizio di febbraio riguardo alla situazione debitoria, rivendicando il proprio attendismo rispetto all’introduzione di ogni nuovo programma economico. “Non è vero che non abbiamo un piano. Non lo annunciamo perché siamo nel mezzo di una negoziazione e se lo dicessimo significherebbe mostrare le nostre carte”. Oggi è il piano è più chiaro: ridurre l’impatto dell’indebitamento in valuta estera cresciuto sensibilmente negli anni di governo di Mauricio Macri, che hanno visto la drastica diminuzione delle riserve in dollari con la complicità dei grandi gruppi industriali, partecipati dagli stessi fondi creditori. Nel capitalismo oligarchico argentino del terzo millennio, il nono default del Paese non conviene a nessuno: ecco perché il piano del ticket peronista Fernandez-Kirchner potrebbe andare a buon fine.

Il 22 maggio l’Argentina ha comunicato che non avrebbe rispettato il termine stabilito per il pagamento di 503 milioni di dollari di interessi su tre grandi blocchi obbligazionari. “Cari amici”, scriveva l’ambasciatore a Washington, “spero che questo messaggio vi trovi in sicurezza e in salute. Vi scrivo per informarvi che il governo argentino estende l’invito ai suoi creditori per scambiare i bond emessi con nuovi bond, fino al 2 giugno”. Si trattava di una seconda estensione temporale, dopo il periodo di grazia di un mese scattato alla scadenza naturale del 22 aprile. Prima di questa scadenza, l’esecutivo aveva già fatto pervenire ai creditori una proposta di ristrutturazione dei tre blocchi obbligazionari interessati, per un valore complessivo di circa 66 miliardi di dollari, circa il 20% del totale del debito pubblico.

La proposta argentina includeva un periodo di grazia di tre anni, un taglio del 5,4% sul capitale e del 62% sugli interessi: un pacchetto che si sarebbe tradotto in un risparmio di 41,5 miliardi di dollari, portando dunque il tasso di interesse dal 7% a una media del 2,33 per cento. Proposta rispedita al mittente da oltre l’80% dei creditori. Che tuttavia hanno accolto la sfida della Casa Rosada. In gioco ci sono infatti le cosiddette clausole di accelerazione, come quella di cross default: l’attivazione, che adesso è facoltà dei creditori, obbligherebbe il Paese a restituire immediatamente una quota del debito, il 25% dei 66 miliardi di debito considerato.

Se i creditori attivassero la clausola, Buenos Aires dovrebbe restituire sull’unghia oltre 16 miliardi di dollari: una cifra che supera le riserve nette della banca centrale, in costante diminuzione e che oggi si attestano attorno agli 11 miliardi. Un salto nel buio che realizzerebbe la reale condizione di default, al momento solo virtuale. Dal momento che queste obbligazioni rientrano nella proposta di scambio offerta dal governo, l’eventuale accordo tra le parti annullerebbe la condizione di insolvenza che si è prodotta fino ad ora.

“Il Covid-19 incrementa le possibilità dell’Argentina di raggiungere un accordo favorevole”, ha detto Miguel Kiguel, docente e direttore della società di consulenza Econviews, al New York Times. “I creditori stanno perdendo soldi dovunque e i bond argentini sono a un valore basso, così c’è la possibilità che se l’Argentina dovesse fare un’offerta ragionevole, i creditori la accetteranno”. Chi sono i creditori? Si tratta di tre grandi gruppi di fondi di investimento. Gramercy Funds Management, Greylock Capital Management e Fintech Advisory sono riuniti nell’Argentina Creditor Committee e posseggono titoli del 2005 ma anche una parte emessi nel 2016. AllianceBernstein, Amundi, Ashmore, BlackRock, Bluebay, Fidelity e T. Rowe Price sono raccolti nell’Ad Hoc Bondholders Group, che raccolgono il 25% del debito emesso durante il governo Macri e il 15% riferibile al dicastero di Roberto Lavagna, ministro dell’Economia tra il 2002 e il 2005. Mentre l’Exchange Bondholders Group vede la presenza tra gli altri di Bhk Capital e Monarch e fa riferimento ai titoli emessi durante la ristrutturazione del 2005.

La controproposta portata in principio dal gruppo di creditori capitanato da BlackRock offriva un risparmio di 32 miliardi in dieci anni, ma la scorsa settimana, insieme al gruppo Exchange, ha offerto un taglio di ulteriori 4 miliardi, arrivando a proporre uno sconto complessivo di 36 miliardi di dollari in un periodo di nove anni. “Il gruppo di creditori Ad Hoc si è mosso nella giusta direzione rispetto alla precedente offerta”, ha dichiarato il ministro dell’Economia Martin Guzman, “ma si è trattato di un movimento corto, insufficiente per le necessità del Paese”. Il governo argentino punta a risparmiare 40 miliardi di dollari, ma nell’ultima offerta ha ridotto il periodo di grazia da 3 a 2 anni, e ha alzato il tasso di interesse che è disposto a pagare, avvicinandosi alle richieste dei creditori.

In mancanza di un accordo al 2 giugno, non sarebbe un problema prorogare la finestra delle trattative. Hans Humes, ceo di Greylock Capital, il 21 maggio dichiarava di ritenere improbabile un ricorso ai tribunali di Manhattan. “Il vero tema non è il contenzioso, ma la ristrutturazione”. Nella prima fase BlackRock si è mostrato come uno dei creditori più duri e fermi sulle proprie posizioni. Non da meno è stato il ministro Guzman, che per difendere le sue prerogative si è più volte fatto scudo di una “Analisi sulla Sostenibilità del Debito”, un report tecnico di inizio anno del Fondo Monetario Internazionale, per inquadrare i parametri finanziari della negoziazione. “Il debito pubblico dell’Argentina, giunto a circa il 90% del Pil a fine 2019, è insostenibile”, affermavano i funzionari del Fmi.

Con il peso deprezzato del 40% rispetto a luglio 2019, gli spread cresciuti di 1.100 punti base e la contrazione di riserve internazionali e prodotto interno lordo, gli esperti del Fmi sostenevano che Buenos Aires era in grado di ripagare ai suoi creditori privati in dollari una quota intorno al 3% del Pil all’anno. Il muro contro muro tra i fondi di investimento e l’ortodossia del ministro è stato però aggirato dall’opportunità politica di giungere a un accordo, per scongiurare un default che non sarebbe ben visto né dall’ala moderata di Alberto Fernandez, né da quella più radicale di Cristina Kirchner. Nelle inedite vesti del poliziotto buono, i peronisti hanno lavorato per avvicinare le parti, e in particolare a ricucire i rapporti e tessere la tela della politica, dell’industria e della finanza ci ha pensato un uomo vicino proprio a Cristina Kirchner, ovvero l’ex numero uno della petrolifera YPF, Miguel Galluccio. Che ha dapprima riportato a più miti consigli il numero uno di BlackRock, Larry Fink, e ha poi convocato un incontro virtuale con Guzman e imprenditori e manager di grandi gruppi industriali, tra cui Luis Pagani (Arcor), Paolo Rocca (Techint) e Carlos Miguens Bemberg (Miguens Bemberg Holdings), i quali hanno ribadito al ministro l’importanza decisiva di arrivare a un’intesa rapida con i creditori.

Il ruolo degli industriali in questa partita è tutt’altro che secondario. I fondi creditori, oltre ad avere acquistato i bond in valuta estera del Paese, hanno investito nel tessuto industriale argentino, di cui detengono ampie partecipazioni. È il caso, per esempio, proprio di BlackRock, primo azionista istituzionale di YPF, la maggiore compagnia petrolifera del Paese, controllata dallo Stato con il 51 per cento. Ma azionista, tra le altre, anche di Telefónica, Mercado Libre, Siderar e Tecpetrol (Grupo Techint), Grupo Galicia, TGN, Pampa Energía, YPF, Monsanto, Procter and Gamble. Queste stesse imprese, secondo le indiscrezioni del giornalista e scrittore Horacio Verbitsky, figurano nell’elenco delle prime 100 aziende che avrebbero favorito la fuga di capitali nel periodo del governo Macri. E indebolito la capacità dello Stato di ripagare gli oneri in valuta estera, esplosi durante il passato governo.

Un rapporto della Banca Centrale, richiesto dal governo e pubblicato a metà maggio, mette sotto accusa l’esecutivo di Macri, le cui “politiche economiche applicate da dicembre 2015 hanno facilitato una fuga di capitali per oltre 86 miliardi di dollari e hanno creato le condizioni di una nuova crisi per sovraindebitamento estero”, dice il Banco Central. L’incremento delle risorse all’estero dei residenti “è stato il risultato di un profondo cambio di paradigma imposto dalla politica cambiaria, monetaria e di indebitamento verso una deregolamentazione dei mercati promossa dal governo di Mauricio Macri”. Non solo. Il trasferimento di attività all’estero mostra nel periodo considerato “una notevole concentrazione tra pochi attori economici”, dice la Banca Centrale. I primi 10 acquirenti di attività estere hanno raggruppato attività per 7,945 miliardi di dollari, i primi 100 hanno realizzato acquisti netti per 24,679 miliardi di dollari. L’1% delle persone fisiche ha accumulato acquisti netti in dollari per 16,2 miliardi di dollari, mentre l’1% delle imprese risultate compratrici nette sono arrivate a raccogliere 41,124 miliardi di dollari in attività estere.

La fuga di dollari dal Paese è stata accompagnata dall’esplosione dell’indebitamento in valuta estera, due fenomeni che in maniera congiunta hanno portato alle pressanti difficoltà odierne. Nel 2015 il rapporto debito/Pil era del 52,6%, di cui il 36,4% in valuta estera. A fine 2019 il rapporto era esploso al 90%, di cui ben il 70% in valuta estera. Tale situazione, secondo il duro report della Banca Centrale, si è concretizzata nelle due fasi dell’era Macri. La prima, tra il 2015 e l’inizio del 2018, ha visto l’ingresso nel Paese di oltre 100 miliardi di dollari grazie alla momentanea stabilità della moneta e alla convenienza delle emissioni in pesos sul mercato dei capitali. Si stima che 8 dollari su 10 arrivati in questa fase nel Paese fossero di origine speculativa, ma al contempo viene sottolineato che nello stesso periodo ben 41,1 miliardi di dollari sono stati portati all’estero da residenti argentini.

Da febbraio 2018 cambia tutto, per non cambiare niente. Le emissioni perdono appeal, si interrompe l’afflusso di dollari e inizia un rapido deflusso di capitali esteri. Per cercare di mantenere il controllo del mercato cambiario, il governo sostituisce il credito privato con quello pubblico e si rivolge al Fmi, che consegna a Buenos Aires 44,5 miliardi di dollari, con l’ordine di non intervenire sui cambi per evitare la fuga di capitali. Con poco successo: i residenti portano fuori altri 45,1 miliardi di dollari, e la svalutazione implicita nel mancato controllo cambiario facilita la dissolvenza delle attività in pesos, spingendo l’inflazione oltre ogni livello di guardia. Per mettere in ginocchio l’intero Paese, che alle elezioni dello scorso anno deciderà di affidarsi al pokerista Fernandez.

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