di Bianca Leonardi

“Immuni” è alle porte: l’App targata Apple e Google che è ormai nelle mani delle autorità sanitarie e che ha l’obiettivo di arginare il possibile contagio da Coronavirus, soprattutto tra asintomatici.

L’applicazione digitale scelta dal Governo si basa fondamentalmente sul contact tracing e sull’invio di una notifica di contagio attraverso il Bluetooth che sarà, è bene sottolinearlo, “volontaria, anonima e rispettosa della privacy”. Il sistema diagnostico del virus passa quindi attraverso la tecnologia e questo ha portato allo sdegno di gran parte della popolazione che si è sentita messa alle strette e controllata da un Governo che, secondo quelli a cui piace sentirsi vittime sempre e comunque, agisce nell’interesse di arginare la libertà dei cittadini e rinchiuderli in muri di terrore.

Quella ricerca del marcio, di cui già abbiamo parlato, si palesa prepotentemente un’altra volta: lo stupore di chi grida al rispetto della privacy non va di pari passo, probabilmente, con la conoscenza delle leggi che regolano la materia perché, se così fosse, tutti coloro che rifiutano sistematicamente di guardare “Immuni” come un tentativo innovativo di mettere in sicurezza le persone dovrebbero non aver nessun account su nessun social network e mi sembra scontato che non sia così.

La privacy nei social network è “il diritto, tutelato e garantito in capo all’utente che utilizzi tali applicazioni internet, di controllare che le informazioni vengano trattate nel rispetto delle norme che le regolano e, in particolare, nel rispetto dell’autodeterminazione del singolo alla loro diffusione e, contestualmente, nel controllo delle notizie che lo riguardano”. Va da sé che la nostra spropositata sovraesposizione sui social può mettere davvero in pericolo la nostra sicurezza.

Se è vero che nella maggior parte dei casi, se non sempre, le informative sulla privacy che ci appaiono sulla schermata del nostro pc sono elementi di disturbo che spuntiamo senza prestare attenzione, è altrettanto vero che l’applicazione di queste regole al mondo virtuale incontra importanti problemi in quanto la rete pone serie difficoltà nell’attuazione di forme di controllo.

L’esempio lampante è Facebook che presenta non pochi rischi riguardo alla riservatezza degli utenti in quanto, per citarne uno, nel momento dell’iscrizione il nome viene indicizzato, automaticamente e senza consenso, nei motori di ricerca esterni al social network rendendo visibili i dati personali a soggetti terzi. Inoltre, con la cancellazione dell’account, non è immediata l’eliminazione dei dati relativi a esso, che restano sul server per un periodo indeterminato.

Questo per dire che, giornalmente, facciamo sapere al mondo cosa mangiamo a colazione, le nostre abitudini più intime, il colore dei nostri calzini, mostrando foto che sarebbe meglio lasciare nel cassetto dei ricordi per sempre, con il bramoso obiettivo di arrivare a più persone possibili, lanciandoci in pasto volontariamente al maggior numero di utenti senza nessuna obiezione, ma è ormai risaputo che “gridare al complotto” sia diventato lo sport preferito di molti durante questa quarantena.

Per quanto riguarda “Immuni” invece, è stato già dichiarato che in nessun caso potranno essere raccolte informazioni relative alla geolocalizzazione dei soggetti e la raccolta dei dati sarà limitata a quelli strettamente necessari a contenere la diffusione del virus.

Da cosa è generato allora tutto lo scalpore che questa App ha suscitato? Da quando siamo diventati fanatici della privacy? Probabilmente la smania di protagonismo ci ha resi ancora una volta fuori luogo, imprigionandoci in quella infantile dicotomia “se mi dicono di farlo/allora non lo faccio”.

Quindi, sì alla ricerca del partner su Tinder nel raggio di un km da casa ma no all’App che tenta di arrivare prima di un virus che sta mettendo in ginocchio il mondo perché, per gli italiani, a quanto pare il sesso occasionale conta più della salute di un’intera nazione.

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