Il coronavirus ha accentuato le differenze gestionali e regolatorie europee nel comparto dei trasporti. L’ultimo e clamoroso esempio è arrivato la settimana scorsa quando un Airbus della Lufthansa partito da Francoforte è atterrato a Malpensa con 150 passeggeri a bordo, non distanziati tra loro perché ciò non è previsto dalla normativa tedesca. Non solo, i passeggeri non avevano alcuna autocertificazione sul proprio stato di salute, richiesta invece dalle autorità italiane. Lo stesso aereo ha compiuto il viaggio di ritorno, secondo le disposizioni italiane, con pochi passeggeri a bordo e secondo le norme di distanziamento che prevedono di lasciare libera la fila di sedili di mezzo.

Oramai è dal 4 maggio che tutte le nazioni europee, esclusa l’Italia, operano con una normativa che non prevede il distanziamento fisico. Sono in molti nel settore a pensare che il modello italiano serva per mascherare l’incapacità gestionale di Alitalia.

Il grave problema di dover volare con pochi passeggeri a bordo per assicurare il distanziamento a bordo e ridurre i rischi di infezione verrà affrontato presto dei ministri dei Trasporti europei per trovare una politica e delle norme comuni. Anche se va detto che nel prossimo futuro la domanda sarà probabilmente bassa e quindi il distanziamento sarà spesso possibile, molto probabilmente le norme più restrittive dell’Italia (cioè del paese dell’Unione il cui settore aereo era maggiormente in crisi già prima del Covid-19) verranno messe in minoranza. Gli altri paesi europei hanno scelto di non fare il distanziamento, oltre che per l’antieconomicità della procedura, per non far volare le compagine in perdita, visto che normalmente un vettore tradizionale (non low cost) necessita di un coefficiente di riempimento del 75%.

Dal punto di vista tecnico, i vettori sostengono che dopo la misurazione della febbre e fatte le domande di rito all’imbarco, una volta che il passeggero è a bordo, la cabina offre un ambiente protetto: gli schienali alti offrono una barriera fisica, non ci sono posti a sedere faccia a faccia, il flusso d’aria condizionata proviene dal soffitto e va verso il pavimento. Le compagnie aeree tradizionali starebbero inoltre già adottando programmi di pulizia mirati sui punti di contatto dei passeggeri nella cabina, e procedure per gestire l’imbarco e lo sbarco dei passeggeri evitando i soliti ingorghi nel corridoio e per modificare i servizi a bordo durante il volo riducendo i movimenti del personale.

Va poi evidenziato che la Iata porta a suo favore delle prove mediche: su un campione di 70 compagnie aeree che rappresenta più del 50% del traffico globale, non sono state identificati casi di sospetta trasmissione da passeggeri a passeggeri. Su questo importante dato sarebbe opportuna una conferma dell’Oms.

Se quindi la ripartenza per il settore è in vista, pur con tutte le cautele del caso, l’Italia è il Paese che incontra maggiori problemi. Deve aggiungere 3,5 miliardi di euro di finanziamento ad Alitalia per la sua nazionalizzazione e sopravvivenza dopo averne già spesi 12 negli ultimi 20 anni (senza calcolare gli aiuti di Stato dei 10 anni precedenti), mentre gli altri Stati solo ora a causa della pandemia dovranno sostenere importanti finanziamenti: una strada obbligata in tutto il mondo che riguarderà anche le compagnie tradizionali private.

Altro punto debole italiano è l’eccessivo numero di aeroporti, ben 39, che impediscono qualsiasi economia di scala per i gestori e creano una distorsione della concorrenza a favore dei vettori low cost, che per volare su questi aeroporti si fanno dare un contributo per ogni passeggero imbarcato con veri e propri aiuti chiamati co-marketing (fenomeno di gigantesche proporzioni solo in Italia).

Non è un caso se l’impatto economico degli aeroporti sul Pil italiano è al di sotto quello della media europea. E i livelli di crisi perenne, di scarsa efficienza e competitività delle compagnie aeree italiane (Alitalia, Blu Panorama, Air Italy ecc.) seguono a ruota quelli degli scali italiani. La produttività media aeroportuale – stima Onlit – è di 4,8 milioni di passeggeri l’anno, contro i 7 milioni degli spagnoli, i 10,8 di quelli tedeschi e gli 11,6 milioni di quelli inglesi.

Ora tocca al Ministero, per evitare improduttivi aiuti a pioggia tesi più al consenso che al rilancio del comparto, il compito di ridefinire un piano degli aeroporti (massimo uno scalo per le piccole regioni dopo verifica costi-benefici se ci sono finanziamenti statali) che ne riduca il numero e obblighi a mettere a gara (in evidenza pubblica) gli eventuali aiuti, che devono essere però destinati non solo alle compagnie low cost ma anche quelle tradizionali. In questo modo si ridurrebbe la spesa, si renderebbero trasparenti i sussidi e si scoprirebbe dove vanno a finire i 250 milioni di aiuti sborsati dagli aeroporti ogni anno. Un unico esempio: secondo le rielaborazioni di Onlit, Ryanair incassa 45 milioni l’anno di co-marketing dal solo aeroporto di Bergamo. Forse è anche per questo che Orio al Serio è terzo scalo nazionale.

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