Giugno 2012, sala stampa di Trigoria. Franco Baldini è seduto dietro a una scrivania di legno. Alla sua destra c’è il nuovo allenatore della Roma, Zdenek Zeman. I fotografi scattano incessantemente, i giornalisti sparano una domanda dopo l’altra. Fino a quando qualcuno non chiede al mister un parere sul suo predecessore. “Ogni allenatore ha le sue idee. Io, magari, mi proietto di più verso la porta avversaria“, dice il boemo. Poi si ferma, sorride, guarda la platea. Seguono risate e qualche applauso. “Bravo!”, grida addirittura qualcuno. Perché il predecessore di Zeman si chiama Luis Enrique. E anche se il suo regno è durato appena dodici mesi, più di qualcuno ha vissuto il suo addio come una liberazione.

“Me ne vado perché sono stanco e non recupererò la forza in estate. E non ho fallito”, aveva detto a maggio, prima di salutare Roma e la Roma (rinunciando anche a un anno di contratto). Luis Enrique era arrivato nella capitale con un peccato originale. Quello di aver allenato solo il Barcellona B. Qualcuno vedeva in lui il copia-incolla di Pep Guardiola, altri solo la sua versione economica. Gli era stato chiesto di far germogliare nella capitale l’idea del possesso palla, di un calcioassociativo”, come lo aveva definito lui, ma che potesse diventare dominante. E lui aveva ubbidito. O almeno ci aveva provato. In una Roma ridotta in macerie, con una nuova proprietà, una nuova dirigenza e un calciomercato che aveva stravolto la squadra, gli era stato chiesto di creare un qualcosa che avesse un’anima e una fisionomia ben delineata. E di farlo subito. Così si era affidato al postulato che conosceva meglio: il gioco, la filosofia da mettere in campo, deve necessariamente venire prima dei calciatori.

Solo che poi “Lucho” era costretto a mandare in campo una difesa composta da Rosi, Burdisso, Heinze e José Angel. Quanto di più lontano dall’idea di una retroguardia capace di giocare alta e impostare la manovra. L’altro pilastro che porta con sé è quello di trabajo y sudor, della fatica che diventa pietra fondante del bene comune. L’allenamento è la premessa della prestazione della domenica. Chi ha pochi allenamenti nelle gambe non gioca. Punto. Un’idea che diventa manifesto programmatico nel preliminare di Europa League contro lo Slovan Bratislava (culminato con l’eliminazione della Roma). Luis Enrique manda in campo Okaka al posto di Totti. Per alcuni è il segno che l’allenatore vuole fare fuori il capitano e il suo ingaggio pesante.

Qualche tempo dopo, invece, il mister spiegherà la sua scelta a Luca Valdiserri del Corriere della Sera. “L’ho fatto perché Totti si è potuto allenare poco in settimana”, aveva detto. “Ma non lo sai che Totti fermo è meglio di Okaka che corre?”, aveva chiesto il giornalista. “E se Totti, stanco, si faceva male?”, aveva contrattaccato Lucho. Fra l’allenatore e la città non si creerà mai un rapporto empatico. Anche se la tifoseria inizialmente lo sostiene. Anche quando Luis Enrique attesa nella capitale portandosi dietro Iván de la Peña, uno che aveva giocato (poco e non troppo bene) con la maglia della Lazio. Prende casa all’Olgiata, esattamente dall’altra parte della città rispetto a Trigoria. Si dice proprio su consiglio del suo collaboratore. Per arrivare agli allenamenti ci impiega fra i 40 minuti e le due ore. I tifosi pensano che sia la scelta di un marziano, di uno che non vuole mescolarsi con loro. Non è così.

È solo che i figli frequentano una scuola internazionale lì vicino. L’esordio in campionato si trasforma in una sconfitta casalinga contro il Cagliari. Un incipit che è già il riassunto di una stagione che oscilla fra qualche prestazione perfetta e tante di cui vergognarsi. A dicembre la Roma incontra il Bologna nel recupero della prima giornata. Sul campo i giallorossi vincono 2-0. Poi a fine partita Marco Di Vaio si presenta davanti alle telecamere e dice: «”La Roma è una squadra che mi ha impressionato, poche volte in carriera mi è capitata una cosa del genere, per cui va dato merito”. Un trionfo che a fine stagione sarà controbilanciato da 14 sconfitte e un settimo posto finale. Luis Enrique diventa “Zichichi”, “Scucchione”, il “Demental Coach”.

All’Olimpico compare uno striscione: “Luis, vattene da Roma. S’è liberato il posto al Barcellona”. L’asturiano seguirà il consiglio. Dopo però aver vissuto un anno di purgatorio al Celta Vigo (che porterà al nono posto). Con i blaugrana resta tre anni. Senza cambiare di una virgola. La bicicletta come gli spinaci di Braccio di Ferro, lo strumento che gli permette di vedere chiaro quando tutto sembra confuso. In tre anni vince due campionati, 3 Coppe di Spagna, una Supercoppa, una Champions League, un Mondiale per club. Senza contare la remuntada del secolo, il 6-1 con cui ha ribaltato il 4-0 incassato dal PSG a Parigi. “Luis Enrique ha dimostrato altrove che non era uno scemo”, dirà De Rossi (che indicherà l’asturiano come il tecnico che più lo ha aiutato a crescere dopo Spalletti e Conte). Per altri il merito è di un attacco composto da Messi, Suarez e Neymar.

Ma Luis Enrique, un tecnico polarizzante che non metterà mai tutti d’accordo. O santo o eretico. Senza sfumature. A Roma ha avuto una frattura con Totti e con De Rossi. Ma è stato bravo a ricomporla. A Barcellona ha avuto uno strappo con Messi. Ma è stato bravo a ricucirlo. Con i blaugrana ha vinto il 76,3% dei match di campionato. Esattamente quanti Guardiola. Solo Tito Vilanova, con l’89%, ha fatto di meglio. Dopo tre anni, però, la stanchezza è tornata a farsi sentire. Invece di provare ad aprire un ciclo Luis Enrique ha preferito fare un passo indietro. Nel luglio 2018, dopo la figuraccia della Spagna ai Mondiali russi, viene nominato commissario tecnico delle Furie Rosse. Il 23 marzo del 2019, al Mestalla, gli iberici battono 2-1 la Norvegia. Due giorni più tardi il commissario tecnico è costretto a fare un passo indietro.

Al suo posto, ad interim, viene nominato il suo vice Robert Moreno. Nessuno capisce perché. Almeno fino a quando Luis Enrique non annuncia la morte di sua figlia Xana. Aveva un tumore alle ossa. E aveva solo 9 anni. Poco dopo, il cittì torna in sella. E per prima cosa si sbarazza del suo vice. “Non sono il buono che si vede nei film – dice – ma non sono neanche il cattivo“. La pandemia ha rivoluzionato tutti i calendari del calcio e ora la prima finestra utile rivedere in campo le nazionali potrebbe essere quella del marzo 2021. Se fosse così Lucho sarebbe l’allenatore di una squadra che in realtà non allena da 2 anni. Ma Luis Enrique non ha fretta. Oggi compie 50 anni e sa già che, qualunque cosa possa fare in futuro, non riuscirà mai a mettere tutti d’accordo. L’unica impresa che proprio non sembra in grado di compiere.

Articolo Successivo

9 maggio, l’ultimo lampo di Van Basten con la maglia del Milan: l’illusione del gol all’Ancona e il sogno spezzato tra interventi e depressione

next