Hey hacker. Dico a voi. Sì, voi che in quarantena non avete trovato di meglio che sollazzarvi intrufolandovi nelle lezioni scolastiche a distanza. Fate apparire dei video inopportuni (ma voi lo sapete cosa gira sui telefoni dei ragazzi, sì? E allora datevi meno arie, che non avete sconvolto nessuno), fate crashare i programmi (che si impallano parecchio anche da soli, fossi in voi non mi prenderei tutto il merito), fate impazzire i professori (ma siamo vicini alla follia già di nostro e non è ancora arrivato maggio, lì sì che diventiamo deliranti). Interrompete l’attività didattica, oh, poffarbacco.

Io non vorrei minare la vostra autostima, ma ecco, noi ci saremmo piuttosto abituati. Io non ricordo una mia lezione di sessanta minuti in nessuna scuola di nessun ordine e grado che non sia stata funestata dall’arrivo improvviso di qualcuno. “Scusa, collega, non è la mia ora ma devo dire una cosa” e venti minuti di cazziatone alla classe. “Scusi, prof, mi dà mica l’elenco di chi si ferma in mensa?” e dieci minuti di “io avevo il buono ma l’ho perso”. “Prof, c’è la mamma di Rigetto, è venuta a prenderlo, già che è qui vorrebbe parlarle” e un quarto d’ora di colloquio senza appuntamento. “Prof, siamo i rappresentanti di istituto, stiamo facendo un sondaggio per la gita” quando ancora si poteva dire gita senza commuoversi. “Ciao, scusa, sei sicura che sia la tua ora? sul serio? allora ho sbagliato io”. Se non entra nessuno, allora suona la campanella e si fa la prova di evacuazione.

Cioè, cari hacker, se lo scopo è rompere le scatole, mettetevi in coda. Ma io ipotizzo invece che lo scopo sia un altro, perché mi domando, come i detective, cui prodest, e cioè a chi giova. A chi giova interrompere una lezione? Agli studenti? Ma quelli già stanno nascosti dal video oscurato e l’audio mutato, la didattica a distanza è molto meno fastidiosa di quella in presenza, siamo come il tg di sottofondo mentre si cena.

No, secondo me cari hacker, giova a voi. Ditelo che un po’ vi manca. Mi ricordate un ragazzo che ho incontrato alla mia seconda supplenza. L’ho visto entrare a scuola, una scuola media in mezzo alla campagna popolata da bambini cucciolosi, vestito come il giustiziere della notte. Il classico pluriripetente con l’aria di sfida e lo sguardo da duro. Si è inoltrato nel corridoio e sembrava puntare verso la mia aula, poi per fortuna si è fermato alla porta prima. La collega sulla soglia, invece, l’ha salutato e abbracciato con affetto.

Mi ha raccontato, poi, che si trattava di uno di quei cosiddetti casi difficili, strappati alla dispersione scolastica, uno di quegli studenti che era più facile trovare fuori dalla scuola che dentro, di quelli che bisognava inseguire, che ne combinavano sempre una e poi toccava rimproverarli e sanzionarli, di quelli che la scuola, si sa, la odiano. E che in qualche maniera la finiscono e finalmente ne vengono fuori.

“Ma allora perché era ancora qui?” ho chiesto, ancora giovane e ignara. “Perché qui se era assente lo notavamo. Se faceva qualcosa, c’erano delle conseguenze. Qui lui esisteva. Era qualcuno. Certo, il più delle volte era uno che faceva casino, ma glielo facevamo notare. Lo vedrai spesso, passa a salutarci un sacco di volte, è un bravo ragazzo”.

Ecco, cari hacker, il mio dubbio è questo. Che in qualche maniera, vi piaccia tornare. Per fare casino, ok, per disturbare, per interrompere, per essere al centro della scena, ma in qualche modo per infilare di nuovo il naso in un’aula scolastica, giusto per vedere com’è. Sì, tranquilli, è sempre tutto come prima, c’è uno che spiega e tanti che ascoltano o fingono di ascoltare. Potete unirvi al gruppo, se volete, magari lasciandoci lavorare. Perché lo so, cari hacker, che se c’è una cosa bella della scuola, una cosa che manca a tutti, è fondamentalmente il fatto che ci sia qualcuno, anche a distanza, ad accorgersi della nostra presenza.

*professoressa presso l’Istituto professionale Lombardi (Vc). Autrice della pagina Facebook Portami Il Diario

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