Era da centocinquant’anni che un pontefice non si trovava prigioniero in Vaticano. Da quando il 20 settembre 1870 le truppe piemontesi entrarono in Roma.

L’epidemia ha cancellato tutto. Udienze di massa in piazza San Pietro, raduni di pellegrini e turisti per l’Angelus. Chiusi i musei, chiusi gli archivi vaticani, chiuso il camper che faceva da posta mobile. Niente mense per il personale di Curia. Niente fedeli per la messa mattutina di Francesco nella cappella di Santa Marta. Il segretario di Stato cardinale Pietro Parolin ha convocato nei giorni scorsi una riunione d’emergenza per assicurare i servizi essenziali all’andamento del governo centrale della Chiesa cattolica.

Papa Francesco ha voluto rompere l’assedio del virus, recandosi domenica a Santa Maria Maggiore per pregare davanti all’icona della Madonna “salvezza del popolo romano”. Poi, compiendo dimostrativamente un centinaio di passi in via del Corso, si è recato alla chiesa di San Marcello, dove è esposto il Crocifisso che protesse la città dalla peste del Cinquecento. Un gesto simbolico per sottolineare che la Chiesa rispetta sì tutte le norme sanitarie, ma non “chiude”.

Rispetto al gesto precipitoso del cardinal vicario De Donatis, che aveva proclamato la serrata di tutte le chiese, Francesco è intervenuto perché le chiese parrocchiali romane rimanessero aperte per la preghiera e perché si sapesse che i sacerdoti stanno accanto al loro popolo (anche la basilica di San Pietro, off limits per i turisti, è accessibile per chi vuole pregare rispettando le distanze di sicurezza). A chi nella gerarchia si era lasciato suggestionare dall’idea di seguire pedissequamente le istruzioni igieniche, il papa argentino ha voluto ricordare che la fede ha alcuni spazi insopprimibili che non valgono meno di un supermercato o di una farmacia.

La piaga del Covid-19 è anche occasione per una riflessione sullo stato delle cose nel mondo. Il Vaticano, crocevia di realtà geopolitiche di ogni continente, è un ottimo punto di osservazione. Preoccupa Francesco il forte indebolirsi in questi anni del principio e dell’ideale del multilateralismo: l’idea secondo cui i problemi del mondo vanno affrontati insieme, in una collaborazione tra potenze grandi e medio grandi, nella prospettiva di quella che Giovanni Paolo II – di cui Francesco si sente legittimo erede sul piano della presenza geopolitica del papato – chiamava una “globalizzazione dal volto umano”.

Fin dall’inizio del suo pontificato, recandosi a Lampedusa, papa Bergoglio aveva denunciato un atteggiamento opposto e dunque distruttivo: il “globalismo dell’indifferenza”. Un atteggiamento di miope egoismo che non riguarda soltanto il fenomeno epocale dell’immigrazione, ma le crescenti disuguaglianze ovunque, le nuove schiavitù, i disastri di una sfruttamento della natura che provoca catastrofi sociali.

Sovranismo identitario, darwinismo politico e sociale, politica estera improntata al più cieco egoismo sono oggi – dal punto di vista dell’attuale pontificato – i grandi mali dell’epoca contemporanea. Un grappolo di virus che danneggiano direttamente lo sviluppo delle nazioni e dell’umanità.

La pandemia è sopraggiunta, dimostrando che l’ideologia della fortezza autosufficiente è illusoria. Più che mai servono sforzi comuni: oggi per combattere il virus, domani per risollevarsi economicamente. Dalla sommità del Cupolone le antenne vaticane colgono molti aspetti del teatro internazionale. Preoccupa l’inconsistenza politica dell’Unione europea. Quanti oggi gridano all’assenza dell’Unione sono gli stessi che da anni si sono impegnati strenuamente a bloccare ogni processo verso una maggiore integrazione.

Hanno le loro responsabilità i movimenti politici sovranisti. Ma anche parecchi ambienti politici dell’Europa orientale che hanno sempre considerato l’Unione un bancomat, ma non il primo passo verso uno stato federale europeo. La stessa miopia si ritrova in molte élites degli Stati nordici, per i quali importa che l’Unione sia uno spazio economico-finanziario funzionante ma niente di più.
Preoccupa il darwinismo sociale del premier Boris Johnson in Gran Bretagna. Il suo monito alla popolazione: “Abituatevi a perdere i vostri cari”, non ha nulla di eroico. E’ una scimmiottatura di Churchill. Significa soltanto – come hanno notato immediatamente gli ambienti scientifici più sensibili – lasciare andare alla deriva i più anziani, i più poveri, i più deboli.

E’ la “politica dello scarto” come ha dichiarato in altre occasioni Francesco riferendosi ad una mentalità economica e tecnocratica che “butta via” ciò che non serve.

Ma dove la distanza tra la visione vaticana e una capitale politica appare oggi siderale è nel rapporto tra la Chiesa di Francesco e il leader installatosi a Washington. Trump è stato in questi anni il distruttore più determinato del principio multilaterale caro alla Santa Sede. Non ha firmato la convenzione Onu sui diritti dei profughi, si è ritirato dall’accordo sul clima, ha sabotato l’accordo con l’Iran sul nucleare, si è ritirato dall’Unesco e dalla commissione sui diritti umani delle Nazioni Unite, ha denunciato l’accordo sui missili nucleari (Inf) con la Russia, non si è risparmiato nell’incoraggiare la Brexit e nello spargere veleno sull’Unione europea, giungendo a proporre al presidente francese Macron di lasciare l’Unione.

Non sono elementi temperamentali, sono segni di una politica irresponsabile.

Oggi l’Osservatore Romano titola, tra i vari articoli sull’epidemia, “Anche gli Usa corrono ai ripari”. C’è tutta la finezza dell’eloquio vaticano dietro l’immagine di un affannoso affrettarsi dopo avere passato settimane a negare il pericolo. C’è l’irresponsabilità di Trump che a lungo ha definito gli allarmi per il virus un “inganno” dei democratici e dei media liberal. Che ha avuto il coraggio di dichiarare che il virus un giorno arriva e “un giorno se ne sarà andato”. Che ancora il 10 marzo twittava che non era niente in confronto all’influenza ed affermava incoscientemente: “Niente è fermo, la vita e l’economia continuano”.

L’impero romano ebbe anche imperatori squilibrati. Negli archivi vaticani ci sono le prove che questa malattia non è rimasta confinata ai primi secoli della nostra era.

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