E se fosse un gigantesco errore?

Osservo questa crisi a distanza, da un Paese – gli Stati Uniti – che ancora non ne ha ammesso la gravità e il cui governo centrale non ha alcuna strategia nazionale, con il presidente Trump che considera il Coronavirus una montatura liberal. Quindi si può sempre fare peggio e ho pieno rispetto di chi, come il premier Conte, si trova caricato della responsabilità di decidere – letteralmente – della vita di milioni di persone, inclusa la mia famiglia che è a Modena, dentro la nuova zona rossa.

Non posso però fare a meno di chiedermi se il decreto emanato nella notte di sabato indichi una scelta fatta per minimizzare il costo politico dell’emergenza o per ridurre i danni.

Qual è lo scopo di “chiudere” mezza Italia con barriere impossibili da far rispettare su base individuale ma che comunque bloccheranno la vita di milioni di italiani, di aziende e istituzioni? Ridurre il ritmo del contagio, non più per arginare la pandemia – ormai inevitabile – ma per diluire nel tempo il numero di malati in gravi condizioni, così da non intasare i già oberati reparti di terapia intensiva.

Il beneficio di questa scelta non è misurabile: poiché nessuno sa qual è il numero reale dei contagiati, visto che i tamponi vengono fatti ormai soltanto ai sintomatici, non ci sarà mai modo di dire se chiudere mezza Italia ha funzionato o meno. In altre parole, non disponiamo dello scenario controfattuale ed è anche molto azzardato simularlo perché, semplicemente, non abbiamo i dati per descrivere la situazione di partenza.

I costi della scelta di estendere la zona rossa a quasi tutto il Nord sono invece enormi. Sorvoliamo per un istante sulla catastrofe economica che questo comporta – bloccare per un mese il cuore produttivo del Paese è qualcosa che non era successo neanche nella grande recessione del 2008 e 2009.

Scegliere come priorità il contenimento del contagio, invece dell’assistenza ai contagiati, implica costi che ora non vediamo ma che saranno evidenti nei prossimi mesi o anni: pensate per esempio a chi aspetta una visita specialistica per sapere se ha un tumore o no, o deve fare un intervento – magari a Bologna o a Milano – atteso da mesi e ora lo vede rinviato a un futuro indefinito. O chi aspettava da un tribunale una decisione importante, magari sui destini di un figlio conteso o un diritto negato.

Queste persone vengono immolate – ora e nei prossimi mesi – in nome di un bene generale individuato dal governo senza alcun dibattito democratico e neppure alcuna evidenza scientifica inequivocabile (non dell’epidemia, quella c’è, ma dell’efficacia di una strategia invece che di un’altra). Sono quindi scelte pesanti.

La decisione del governo farà delle vittime, molte saranno indirette, invisibili. Non soltanto perché quelle persone in attesa di una visita, di un trapianto, di un’assistenza forse non ci saranno più’ quando le cose torneranno normali. Ma anche perché avere come priorità il contagio implica, tra l’altro, tenere in quarantena persone che potrebbero essere di aiuto per salvare molte vite proprio tra i malati di Coronavirus.

Ci sono medici in quarantena perché hanno incontrato persone malate, magari positivi e asintomatici. Anche molti altri italiani – inclusi i politici e i funzionari dello Stato – potrebbero essere in prima linea e aiutare se la priorità fosse l’assistenza invece che la prevenzione del contagio. Nella loro città o in quella vicina, a cui non possono accedere per i confini della zona rossa.

Bloccare intere regioni può, nel migliore dei casi, trasformare un pezzo di Italia in una gigantesca Diamond Princess, la nave su cui sono stati tenuti imprigionati per giorni decine e decine di esseri umani, parte malati, parte no. E’ servito a qualcosa? Sembra proprio di no: se un mio concittadino modenese incontra un malato, può sottoporsi a quarantena per due settimane, ma appena esce potrebbe capitargli incontrare un altro malato, e dovrebbe ricominciare. E così via finché non saranno tutti guariti. Potrebbero volerci settimane, mesi: qualcuno pensa che l’Emilia, la Lombardia e il Veneto possono rimanere isolate dal resto d’Italia tanto a lungo?

A un certo punto le persone della Diamond Princess sono state spostate a terra, anche se malate, quando si è deciso che tenerle in mare era una crudeltà inutile. Costruire enormi lazzaretti non risolve il problema dell’epidemia nelle zone colpite, nel migliore dei casi protegge quelle ancora relativamente indenni.

Tutti si preoccupano dei reparti ospedalieri di terapia intensiva in affanno, che sono la trincea più evidente. Ma tutti gli altri a casa con la polmonite chi li cura?

Lo scorso anno ho avuto una pesante influenza con complicanze respiratorie, non sono mai andato in ospedale ma ho avuto bisogno di molta assistenza: medici, familiari, amici che vengono a prestare soccorso. Se tutta questa gente sta in quarantena, chi si occupa dei malati a casa? Non c’è un decreto del governo su questo, viene tutto lasciato all’organizzazione di territorio, alla buona volontà dei medici di famiglia che devono esporsi a rischi personali senza un coordinamento dall’alto che, per esempio, separi almeno chi va a domicilio da chi deve tenere aperto l’ambulatorio.

Poi ci sono altre categorie fragili che hanno bisogno di un tessuto sociale funzionante anche soltanto per la mera sopravvivenza, a prescindere dal virus: anziani non autosufficienti, disabili, persone con disabilità psichiche, poveri, senza fissa dimora. Possiamo decidere che le loro esigenze passano in secondo piano, ma è una scelta impegnativa da fare, come società. E la rivolta nel carcere della mia Modena dimostra che questi non sono problemi teorici: trasmettere il messaggio che il governo è disposto a sacrificare qualunque diritto per fermare il contagio scatena un comprensibile panico in chi si sente il più sacrificabile di tutti, impossibilitato a salvarsi.

C’è un’alternativa? Forse sì.

Ammesso che il virus fosse contenibile – e non è detto che lo fosse – non ci siamo riusciti. La gente di Codogno si è sparsa in tutta Italia e non solo, il contagio è arrivato a Milano, campagne irresponsabili come #Milanononsiferma hanno trasmesso un falso senso di sicurezza quando forse ancora c’era tempo per fare qualcosa di drastico. Del senno del poi non sappiamo che farcene. Ma possiamo ancora arginare i danni, mitigare le sofferenze.

Ha senso tentare l’isolamento di intere Regioni – che riguarda senza differenza persone sane e anziani deboli – mentre a pochi chilometri 80enni fragili continuano la loro vita come se niente fosse?

Se si accetta che il contagio è inevitabile – mentre le sofferenze e i morti non lo sono ancora – allora si possono mobilitare medici e risorse di altre Regioni per aiutare le aree più colpite, approfittando del gap temporale nella diffusione da una zona all’altra e per permettere ai medici malati di riprendersi e tornare in servizio.

L’alternativa all’approccio del governo è coordinare tutte le forze disponibili per aiutare le categorie più deboli e le persone più sofferenti, per evitare che gli immunodepressi o gli asmatici debbano andare al supermercato, per assistere a domicilio o in alberghi messi a disposizione persone con complicanze respiratorie gestibili fuori dall’ospedale. Per farlo servono le istituzioni, la servizio sanitario, ma anche uno sforzo di solidarietà paragonabile a quello che abbiamo visto tante volte, dall’alluvione di Firenze in poi.

I comportamenti individuali responsabili a cui – con due mesi di ritardo – vengono invitati gli italiani possono comunque rallentare la diffusione del contagio.

Evitare concerti, file al supermercato e manifestazioni di piazza sicuramente aiuta, ma di certo non allevia le sofferenze di chi oggi sta già male o si troverà ad aver bisogno di aiuto a breve. E bisogna pur pensare anche a quelle persone.

Decreti come quello di sabato garantiscono titoli sui giornali di tutto il mondo senza però offrire a chi è già vittima dell’influenza o sta per diventarlo alcuna prospettiva di speranza.

E’ un decreto che riguarda i sani, non i malati.

In questa fase, purtroppo, l’epidemia assomiglia molto a un terremoto, che ha colpito alcune zone lasciando intonse altre. E dopo un terremoto non ci sogneremmo mai di lasciare le persone sotto le macerie. Qualunque fosse il rischio per i soccorritori o il costo economico per lo Stato.

Aggiornamento del 10 marzo, alle ore 8,30

A poche ore dalla pubblicazione di questo post, il governo ha cambiato completamente linea. Ha deciso che non ha senso trasformare un quarto del Paese in un lazzaretto mentre è meglio applicare a tutto il Paese misure omogenee che riducano il contagio, mentre si cerca di prestare assistenza. Non ci voleva una grande capacità previsionale a capire che in tanti avrebbero cercato di uscire dalla “zona rossa”, come poi è successo, aumentando la probabilità di contagio in zone ancora relativamente immuni. Il decreto di sabato è stato un errore, nel merito e nel metodo, il provvedimento di lunedì cerca di porvi rimedio. Speriamo che sia di lezione per il futuro e per altri Paesi che dovranno affrontare a breve simili sfide.

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