È passata una settimana dalla fatidica ordinanza che ha trascinato in un batter di ciglia il Nord Italia in uno stato di emergenza per la tangente della psicosi.

Ho osservato un silenzio terapeutico per 7 giorni, una specie di digiuno dall’infodemia, l’epidemia più pericolosa, quella delle notizie, dei complottismi, delle paure. Ho comunque ascoltato e osservato: i servizi dei media, le persone, poche, in giro… i bambini, nonostante tutto, in maschera al parco. Ho sentito le opinioni e gli opinionisti, in un personale effetto Decameron. Dieci giovani per cento novelle in una bucolica campagna dove fuggire alla peste di Firenze e parlare di tutto, soprattutto di amore.

Boccaccio sapeva che esiste un antidoto per le epidemie del mondo, che non toglie nulla alle misure sanitarie e alle sorveglianze infettivologiche, ma che è l’unico a cui tutti possono attingere: la capacità di ricreare dentro di sé una sicurezza nell’insicurezza, di stare comodi anche in un campo di tensione, di stare presenti e sentire se stessi e gli altri. Si tratta di trovare un posto sicuro nell’angoscia di archetipi atavici, come la peste e il contagio, che agisce spostando la coscienza verso la paranoia e il cervello al predominio del sistema arcaico limbico-rettiliano, che risponde al pericolo con la fuga e l’aggressività e vede negli altri e nel mondo solo minacce.

Stare nella propria campagna interiore, senza negare nulla del reale, ma continuando a vivere la bellezza, l’amore, la relazione.

Le ricerche delle neuroscienze affettive ci dicono che esiste un legame profondo tra paura, stress, sistema neurovegetativo e immunitario e che il sistema immunitario risente dello stato di angoscia, dell’isolamento sociale, del senso di insicurezza e rifiorisce quando si ha la percezione di sicurezza nel campo, quando si cerca la bellezza, la neuroestetica appunto, e quando si mantiene vivo il coinvolgimento sociale. Parlare di paura, continuare a guardare di ora in ora l’Ansa del momento, fa male alla biochimica e alla biofisica di corpo e anima.

Eppure il male ha un fascino: la solita storia del diavolo necessario. L’oscuro attira, un sadico serpeggiare di notizie catastrofiche eccita, come i gladiatori nell’arena. Adrenalina in pasto al bisogno di novità e di attivazione. Si potrebbe forse azzardare il ben noto tema dell’ombra: abbiamo bisogno anche dell’ombra, in questo mondo, per vedere la luce.

Ma se l’ombra prevale ci inghiotte. L’ombra è un progetto condiviso, di stati, di politiche e di economie: per vivere e prosperare ha bisogno solo di una cosa. L’inconsapevolezza di chi cattura. Basta che le persone non pensino con la propria testa, basta che non la guardino e l’ombra cresce. Invece quando viene guardata, si dissolve: non è risolta, ma è trascesa. Come quando un poeta, seppure mortale, è capace di scrivere parole immortali.

L’epidemia allora ci ricorda una cosa del tutto ovvia, ma che dimentichiamo troppo spesso: che siamo mortali e fragili, vulnerabili. In sette giorni se ne è parlato, come se fosse una scoperta. Invece è il nostro pane quotidiano, anche se non facciamo parte degli 815 milioni di persone che soffrono la fame o dei 5,6 milioni di bambini morti sotto i 3 anni.

La novità sarebbe poter guardare questa vulnerabilità e amarla. Questa sarebbe la forza.

Gli obiettivi dell’Agenda delle Nazioni Unite per il 2050 sono quelli di una pace globale che forse non può che provenire da un modello d’amore e non di profitto. Niente di sdolcinato, piuttosto il concetto di amorizzazione del mondo di Theilard De Chardin, scienziato e teologo. Ancora più realista, il concetto di amore come ordine ultimo, sistema dei sistemi di Henri Laborit, biologo e filosofo insieme. Umanesimo e scienza riuniti di fronte a quella vulnerabilità, che se non fossimo inconsapevoli potremmo guardare, amare e trascendere. Solo chi ama la tua vulnerabiltà ti ama davvero, diceva Ignazio Silone.

Ho contemplato le immagini del virus, per guardare in faccia l’ombra: è bello, con la sua corona e forse portatore di bene oltre il male… “I batteriofagi saranno la nostra arma futura per sconfiggere l’antibioticoresistenza”, Le Scienze, febbraio 2020.

In questi giorni che molto del correre quotidiano si è fermato, perché invece che correre di nuovo dietro alla paura, non fuggire nella campagna interiore, sul barcone che scorre lungo il fiume della pestilenza dove i due anziani di Gabriel Garcia Marquez fanno l’amore ai tempi del colera, perché non pensare di più, sognare di più, stare in silenzio di più? Henri Laborit ha scritto L’elogio della fuga, intesa non come un pavido scappare ma come via dell’immaginario che ci salva. Magari invece dell’Ansa…

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