Cultura

Sul Filo di Lana, un estratto del libro di Loretta Napoleoni che racconta la storia “politica” del lavoro a maglia

L'arte di sferruzzare, ereditata dalle nostre nonne, oggi diventa un mezzo per combattere lo stress e per lanciare messaggi politici, femministi, ambientalisti: un estratto della nuova uscita di Mondadori sugli attivisti moderni con ferri e gomitoli

di F. Q.

C’è un filo di lana che attraversa la storia, intrecciando ricordi personali, economia e contestazioni politiche a colpi di diritto e rovescio. Lo racconta l’ultimo libro di Loretta Napoleoni, economista, saggista e blogger per Ilfattoquotidiano.it, “Sul filo di lana – Come riconnetterci gli uni agli altri”, fresco di stampa per Mondadori, di cui pubblichiamo un estratto. Il lavoro a maglia, inventata più di 4mila anni prima della nascita di Cristo, ha attraversato i secoli successivi, dalle corporazioni rinascimentali alle tricoteuses della Rivoluzione francese, che sferruzzavano imperterrite sotto la ghigliottina. Ereditato dagli hippie, oggi ferri e gomitoli hanno smesso di essere considerati simboli della sottomissione femminile e – al contrario – sono stati impugnati per la Women’s March negli Stati Uniti, con il “Pussy Hat Project”.

L’ESTRATTO DI “SUL FILO DI LANA”

“Da secoli il lavoro a maglia e l’economia sono alleati e hanno offerto una rete di sicurezza a donne e uomini facenti parte di comunità più o meno grandi che attraversavano cambiamenti drammatici. La transizione che stiamo vivendo oggi è molto più sconvolgente. Sullo sfondo del declino dei valori tradizionali comunitari si stagliano il degrado ambientale e i cambiamenti climatici. L’inquinamento e i rifiuti avvelenano la nostra esistenza, mentre il consumo sfrenato compromette la sostenibilità. La corruzione e l’avidità erodono la coesione sociale e promuovono l’individualismo. La disuguaglianza non è solo accettata, è incoraggiata. Questo è un mondo destinato a implodere, perché ha cancellato le leggi della natura e quelle dell’interazione sociale. Ci apprestiamo a entrare in un futuro distopico, fatto di sfide che appaiono impossibili, con le nazioni che sbiadiscono nell’anarchico villaggio globale.

Il lavoro a maglia può e deve riportarci ai valori primari, deve ricucire l’alleanza tra noi e la politica, saldare le fratture, ricostruire i ponti, ripulire l’aria inquinata, sanificare l’acqua e restaurare la socializzazione. Quest’arte antica può contrastare l’apocalisse climatica e la distopia politica? Secondo gli urban knitters e gli yarn bombers, la risposta è sì. Da oltre due decenni, uomini e donne si riuniscono a lavorare a maglia per protestare contro il degrado ambientale. Dal 2006 al 2007, il gruppo londinese I Knit insieme con l’associazione WaterAid ha lavorato al progetto “Knit a River” per creare un fiume lavorato a maglia. Lo scopo era quello di attirare l’attenzione sul miliardo di persone che non hanno accesso all’acqua potabile. Volontari ubicati in tutto il pianeta hanno sferruzzato circa centomila quadrati per formare il fiume. Secondo il sito web di I Knit, durante l’evento il fiume è stato «drappeggiato come una cascata dal tetto del National Theatre a South Bank, a Londra» e ha dato vita a «uno spettacolo straordinario!». In Canada, i Rock Vandals hanno usato lo yarn bombing per dare voce alla loro preoccupazione sul pericolo che l’industria petrolifera rappresenta per l’ambiente: hanno ricoperto con la lana tronchi di alberi, lampioni e pali lungo le strade per dare un po’ di colore alle cupe giornate invernali dell’estremo Nord.

Il guerrilla knitting offre, a chiunque sia disposto a sferruzzare, un canale pacifico per protestare contro la pessima politica contemporanea. Nell’agosto 2016, nell’anniversario della prima bomba atomica sganciata sul Giappone, Wool Against Weapons ha realizzato una sciarpa lunga oltre undici chilometri, che collegava le fabbriche di armamenti nucleari di Aldermaston e Burghfield nel Regno Unito. In Germania, Strick & Liesel, un’organizzazione che ha preso il nome dal giocattolo tedesco Strick-Liesel, la nostra Caterinetta – lo strumento con cui i bambini possono imparare a fare la maglia –, ha fondato il progetto “Fluffy Throw-Up”, una forma non violenta di protesta contro l’energia nucleare. Il loro logo giallo e nero viene spesso attaccato ai tronchi degli alberi, ai lampioni, alle balaustre e ai pilastri dei ponti nelle città di tutta la Germania.5 Si ricorre allo yarn bombing anche per spezzare le barriere di genere e razziali. In Cile il gruppo degli Hombres Tejedores (Uomini che sferruzzano) lavora a maglia in pubblico per sfidare i tradizionali stereotipi di genere. A Reykjavik, in occasione dell’annuale Gay Pride, gli yarn stormers coprono i pali della luce e gli alberi di arcobaleni tricottati, mentre di notte vestono le statue cittadine con variopinti abiti fatti a maglia.7 Nel 2014, dopo l’uccisione di Michael Brown in una spa- ratoria a Ferguson, nel Missouri, Taylor Payne e CheyOnna Sewell, due attiviste politiche, hanno fondato lo Yarn Mission, descritto come un collettivo di persone che sferruzzano per combattere contro la discriminazione razziale nella loro comunità. La tranquillità e la sicurezza di un circolo della maglia aiutano chi vi partecipa a raccontare e a parlare delle proprie, traumatiche esperienze di razzismo. In tutto il mondo esistono centinaia di migliaia di analoghe iniziative di guerrilla knitting e tutte sostengono la pacifica mobilitazione di massa per dar vita a un mondo migliore. Ma non basta. Queste iniziative hanno una chiara visione del futuro.

Un tempo tutto ciò era il tratto caratteristico dei sindacati e dei partiti politici. In un certo senso, lavorare a maglia per protesta può essere accomunato ai tradizionali movimenti di massa politici come quello delle suffragette, o quelli per i diritti umani, per la liberazione della donna e per la libertà di parola. Gli yarn bombers sono moderni attivisti, persone che escono dalle loro case per incontrare gli altri e agire insieme. Il Pussy Hat Project ha motivato le donne a sferruzzare dei berrettini orecchie di gatto rosa e a indossarli sfilando per le strade durante la marcia svoltasi a Washington dopo l’elezione di Donald Trump. Anche quando la mobilitazione non è direttamente collegata a un evento politico, come Knittami in Italia – un gruppo di yarn bombing che ha come slogan «Coloriamo la città con filati, ferri e uncinetti» –, i guerrilla knitters assomigliano agli attivisti di vecchio stampo che interagiscono e fanno dimostrazioni negli spazi pubblici. Occupy Wall Street, gli Indignados, l’Umbrella Revolution sono arrivati e scomparsi, esplosioni di attivismo politico che si sono consumate rapidamente come una candela. Invece lo yarn bombing è ancora vivo, l’urban knitting è un fenomeno globale di lungo termine che continua a fare la sua comparsa in Alaska, Nuova Zelanda, Svezia, Stati Uniti, Cile e un po’ ovunque. Perché mai, dunque, sappiamo così poco della Rivoluzione della maglia? La risposta è semplice: i media non hanno interesse in un movimento di protesta pacifico, silenzioso e a lungo termine. Non ci sono gesti sensazionali quando si fa yarn bombing su un autobus di Reykjavik, in un parco innevato di Anchorage o all’Embarcadero, sul lungomare di San Francisco. Nessuno urla slogan, nessuno si fa male, l’attivismo della lana è quasi confortevole. Tuttavia, dietro i lavori a maglia «sovrapposti» al nostro ambiente si cela una protesta reale, profonda. Il messaggio rivoluzionario non è violento perché è racchiuso in una mobilitazione di massa che ci fa sferruzzare da soli, ognuno a casa propria o anche insieme, nei circoli della maglia. Dietro lo yarn bombing ci sono i guerrilla knitters, persone dedite alla causa, persone che hanno ideali, che si preoccupano per gli altri e interagiscono tra loro. Gente che ha pazienza e non molla.

Se vogliamo salvare il pianeta dall’apocalisse climatica, dobbiamo alzarci dalla sedia, incontrarci faccia a faccia e agire. Gli yarn bombers fanno proprio questo e lo fanno artisticamente. Da sempre il rapporto della politica con l’arte è più stretto di quello con il lavoro a maglia, e forse l’arte è il canale grazie al quale la maglia potrà finalmente diventare “politica”. Qualsiasi strada è la benvenuta se porta a un cambiamento positivo. Il contributo sarà forse piccolo – come i fiori a crochet attaccati ai rami spogli dei parchi nell’inverno di Anchorage, o come uno dei cinquemila papaveri per ricordare i caduti in tutti i conflitti –, ma non è privo di significato e continua ancora. È questo lo spirito di chi lavora a maglia, è questo che mi ha insegnato mia nonna: fare la maglia non finisce mai, ci sono sempre un altro modello e un altro filato da sferruzzare per le persone che amiamo. Anche la politica non ha fine, è un organismo vivente formato da milioni di persone, tutte interconnesse esattamente come le fibre del del filato. E che sperano di creare un tessuto sociale migliore”.

Sul Filo di Lana, un estratto del libro di Loretta Napoleoni che racconta la storia “politica” del lavoro a maglia

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