Il 17 novembre ricorre il primo anniversario dell’”Atto primo”: così era stata chiamata la prima grande mobilitazione del movimento francese dei Gilet gialli. Un po’ come la maschera di Guy Fawkes, il gilet giallo rappresentava l’homo tantum, l’automobilista qualunque in panne con la macchina sul ciglio della strada, arrabbiato per l’aumento delle accise sulla benzina, poi gradualmente alla ricerca di un significante vuoto da riempire.

In questo anno, i Gilet gialli hanno prodotto un’enorme protesta sociale, assieme a una marea di contraddizioni, a partire da quella – la più classica – tra destra e sinistra, movimento progressista insoumis o indignado o forconi e camionisti inferociti. Non si contano le interpretazioni del fenomeno alla luce di questa distinzione, laddove una lettura “populista” di sinistra ha piuttosto puntato alla distinzione alto-basso invece che a quella più tradizionale di cui dicevamo. Ma non c’è dubbio che si tratti di entrambe le cose.

Il movimento dei Gilet gialli ha fatto cadere il monocolo a molti, soprattutto per le modalità vagamente “rudi” impiegate (si ricorderanno a un certo punto le immagini di un ex pugile che pesta un poliziotto): dal momento che viviamo in un mondo in cui alla rivoluzione si va sventolando tutt’al più le foto di Greta Thunberg o le sardine di carta, figuriamoci se sono ammessi gesti violenti (signora mia!).

Che poi non di rivoluzione si trattava: se stiamo alla distinzione che forniva Furio Jesi tra “rivolta” e “rivoluzione”, mentre entrambi possono avere il medesimo scopo (prendere il potere, per esempio), la differenza sta in una diversa esperienza del tempo: la rivoluzione è un insieme di atti coordinati e rivolti al fine ultimo, mentre la rivolta è sospensione del tempo storico. Accada quel che accada, nella rivolta tutto si consuma lì per lì. Ed è forse questo il principale limite dei Gilet gialli.

Pur avendo espresso rivendicazioni precise – ma a quelli a cui cade il monocolo sembrerà comunque sempre la racaille di sarkozyana memoria, l’irrazionale jacquerie pronta a squartare possidenti e preti -, il movimento non ha pensato la temporalità storica. Certo, vaste programme! Ma se il significante vuoto da riempire non c’è, se non c’è il telos quasi escatologico, se non c’è la struttura ma ci si affida allo spontaneismo, allora il movimento è destinato a consumarsi. E questa consunzione è ciò che oggi, a poche ore dall’Atto 53, rischia di far fallire le “celebrazioni” dell’anniversario.

Complice anche il lavoro di Emmanuel Macron che, se da un lato ha garantito risorse finanziarie (17 miliardi) per prestazioni sociali e riduzioni fiscali, dall’altro ha lanciato il Grande dibattito nazionale per raccogliere i cahiers de doléances della popolazione. Vero è che i Gilet gialli avevano risposto con il “vero dibattito”, una consultazione democratica online ben diversa dalla furba somministrazione di questionari macroniana. Tuttavia la Francia ha discusso. E discute anche in queste ore, divisa fra il favore verso le ragioni della protesta e l’insofferenza verso i disagi da essa creati.

Niente a che vedere con l’Italia però, dove la protesta in questo anno è stata perfino di segno opposto: non del “basso” contro l’”alto”, ma delle “madamine” torinesi per i “grandi investimenti” del Tav, per esempio, ovvero di quell’aristocrazia urbana contro la quale protestavano, anche, i Gilet gialli e che oggi, nella Penisola, è elettoralmente caratterizzata – in modo apparentemente paradossale – dal voto alle forze di centrosinistra.

Insomma, mentre con qualche dubbio ci accingiamo a verificare cosa ne sarà dei Gilet gialli, è forte il timore che rischiamo di assomigliare, più che ai cugini d’Oltralpe, alla Polonia dell’ultradestra.

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