Il profluvio di messaggi di “solidarietà” e “vicinanza” che ha inondato l’Italia da Nord a Sud, alla notizia dei nostri cinque militari feriti in un attentato in Iraq, ha fatto il suo bel dovere: ha riempito pagine di giornali, tg, talk, social, il più delle volte al solo scopo di dare una lustrata all’immagine pubblica di chi lo stava alimentando. All’indomani dell’attacco che ha ferito gravemente tre soldati, cos’è rimasto? Poco o nulla. Se non la volontà, a livello governativo, di confermare la missione in cui erano impegnate le nostre forze speciali (parola del ministro della Difesa, Lorenzo Guerini).

Bene, ma di quale missione si tratta? È l’operazione Prima Parthica, che ha come primo obiettivo il contrasto all’Isis. È attiva dal 2014, è internazionale (partecipano 79 Paesi) e l’Italia vi contribuisce, al massimo, con 1,1mila militari.

Può essere, come è stato scritto – e io sono d’accordo – che non ci sia alcun legame tra l’esplosione di ieri e l’inizio dell’invasione turca nel nord-est della Siria. Perché la regione in cui è avvenuta, tra Kirkuk e Suleimaniyah, è da tempo battuta dalle cellule del fu Stato islamico. E non è detto che l’instabilità prodotta da Turchia e gruppi jihadisti nel Kurdistan siriano abbia avuto ripercussioni dirette nell’organizzazione dell’Isis in Iraq.

Detto questo, ciò che mi preme sottolineare sono alcuni punti. Il primo: nei due Paesi mediorientali ci sono dai 30mila ai 40mila combattenti di Daesh. Un numero senz’altro consistente. Il secondo: non ci sono dubbi che, da quando Recep Tayyip Erdogan ha deciso di bombardare il Rojava, l’Isis abbia alzato la testa. E ciò, ovviamente, nonostante la morte di Abu Bakr al-Baghdadi.

Alcuni fatti a tal proposito: nell’ultimo mese (l’operazione turca Spring Peace è datata 9 ottobre) gli attacchi terroristici tra Manbij e Qamishlo, passando per Raqqa e al-Hasaka, sono raddoppiati. Nei primi dieci giorni di novembre l’Isis ha rivendicato 30 attentati (+300% rispetto allo stesso periodo del mese precedente). Allo stesso tempo, coi curdi impegnati a difendersi dalle forze jihadiste supportate dalla Turchia e dalle bombe di Ankara, i raid delle Sdf (Forze democratiche siriane) nei confronti delle cellule Isis hanno subito un calo del 75%.

In più, dopo la nomina del nuovo califfo Abu Ibrahim al-Hashimi al Quraishi, sui canali vicini allo Stato islamico si sono susseguiti i messaggi di sostegno al nuovo leader con la promessa di intensificare gli spargimenti di sangue. Per non parlare, infine, degli oltre cento miliziani dell’Isis fuggiti dalle carceri controllate dalle Sdf, grazie ai raid aerei turchi e alle incursioni delle milizie alleate di Ankara.

Ora, la mia domanda è molto semplice. Perché confermiamo le missioni anti-Isis (oltre a Prima Parthica c’è quella della Nato, a cui partecipiamo, e quella europea di addestramento e formazione della sicurezza irachena) quando non abbiamo fatto nulla per impedire che la Turchia invadesse (di nuovo) la Siria aiutando, direttamente o indirettamente, l’Isis a riorganizzarsi? Che senso ha finanziare missioni militari e mandare i nostri soldati a rischiare la vita quando lasciamo che un Paese Nato, in teoria nostro partner, faccia il bello e il cattivo tempo?

In pratica permettiamo (Italia, Europa, Usa) che il terrorismo si rinforzi e poi addestriamo peshmerga e forze armate irachene per contrastarlo. Per me non ha alcun senso. Abbandonati i curdi, la cosa più coerente da fare sarebbe interrompere le missioni militari.

Twitter: @AlbMarzocchi

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