La formazione del secondo governo Conte, frutto di un accordo Pd-M5S scaturito dal passo (forse) falso di Matteo Salvini, in preda ai fumi del Papeete o forse su suggerimento di malintenzionati anche nei suoi confronti, ha riproposto con tutta la forza della normalità la centralità del Parlamento e l’equilibrio tra i diversi poteri che promana dalla Costituzione, su cui fonda la nostra democrazia.

Il Presidente della Repubblica quale terzo arbitro, garante massimo del rapporto tra esecutivo, parlamento ed elettorato, nonché capo della magistratura e delle forze armate, ha condotto lo svolgimento della crisi di governo nei binari della Costituzione, ovvero con la ricerca prioritaria nel Parlamento di un’altra possibile maggioranza. Il Presidente ha anche ineccepibilmente imposto che questo svolgimento avvenisse in tempi sufficientemente brevi per non determinare un eccessivo vuoto di potere in una fase politica molto delicata. Nonostante gli schiamazzi di Salvini e Giorgia Meloni, la nuova maggioranza si è costituita con il voto di fiducia nelle due camere, secondo prassi.

Ovviamente conosciamo tutte le difficoltà che sottostanno a questa decisione: i trascorsi tempestosi tra i due partiti che compongono l’alleanza, per certi versi la vera e propria reciproca antinomia, dovendo diventare in un baleno leale collaborazione ha dato luogo agli strali delle nuove opposizioni con l’accusa di trasformismo e poltronismo, oltre che di paura del voto. Una difficoltà politico-comunicativa obiettiva e che potrà essere superata solo da una volontà chiara di cooperare non solo per l’immediato ma in una prospettiva almeno di medio termine.

Quali scenari si aprono dopo la nascita di questo inusuale asse democratico-pentastellato?

È difficile comprendere le dinamiche tra i due gruppi, atteso che nel frattempo sono accaduti altri eventi di non poco conto: in primo luogo la scissione di Matteo Renzi, una capriola a doppia torsione carpiata, dal momento che l’ha prodotta a Camere ancora calde per la formazione del governo, cogliendo alla sprovvista in primo luogo Conte, ma lo stesso Pd che per quanto edotto delle sue intenzioni certo non prevedeva una decisione così immediata.

La nascita di Italia Viva meriterebbe un’analisi a parte approfondita, che si potrà fare quando si sarà compresa la natura vera di questa compagine e le intenzioni di fondo del suo leader carismatico. Si può però affermare con sicurezza che è la prima scissione “ da destra” nel fu partito comunista, ex Pds, ex Ds, ex Pd ex PdR (di Renzi) ed ora di nuovo Pd meno R. Perfino una delle prime da destra della storia della sinistra dalle sue origini, se si esclude quella di palazzo Barberini a Roma nel 1947, in cui Giuseppe Saragat, con i gruppi Critica Sociale e Iniziativa Socialista, decise di abbandonare il Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria e di fondare il Partito Socialista dei Lavoratori Italiani, certificando la storica frattura fra socialismo massimalista e socialismo riformista.

Una scissione, quella di Renzi, che rompe un difficile equilibrio, costitutivo del Pd, tra area moderata post-post comunista e neo liberal di matrice prevalentemente ex popolare. Una separazione che mette in discussione le stesse ragioni di fondazione del Partito democratico, perché Renzi ha sottratto a parer mio non solo parte del gruppo dirigente e forse in misura non corrispondente della base, ma se vogliamo la sua stessa ragion d’essere, andandosi a collocare in posizione del tutto autonoma, nel centro del sistema politico, se pur partendo da percentuali attualmente trascurabili.

Ora: possono esistere due partiti centristi ma non due centri, quindi alla lunga uno dei due dovrà sgombrare ed accomodarsi o più a destra o a sinistra. Questo nonostante la convinzione dei grillini, dura a morire, che non esistano più né la destra né la sinistra.

Di fronte a questi sconvolgenti rovesciamenti di fronte non sappiamo ancora quale sarà la strategia di risposta del Pd (se ne avrà una). Sembra che aborriscano un ritorno a una configurazione più tradizionale di partito socialdemocratico, i segnali finora vanno in questa direzione.

Nel frattempo sono presi dalla non semplice navigazione di governo, e soprattutto dal tentativo di evitare insieme all’alleato di governo la sconfitta nei prossimi passaggi elettorali nelle regionali in Umbria, in Calabria e in Emilia Romagna. Soprattutto quest’ultima elezione, fissata il 26 gennaio, rappresenta la prova più importante. Se Salvini dovesse conquistare la regione “rossa” non ci sarebbe più nessun ostacolo all’agognata “presa del potere”.

Questa è la ragione per la quale, nonostante non manchino riserve e critiche anche molto fondate sull’operato della giunta uscente di Stefano Bonaccini, nonostante sussistano divergenze non marginali sul governo di importanti aspetti e comparti della regione, molte elettrici ed elettori sono orientati a votare per il centro sinistra, pur di evitare che questa destra, con inclinazioni razziste e xenofobe, governi la regione.

Sarà sufficiente il giusto sentimento di ripulsa e di paura a mobilitare l’elettorato, che alle precedenti elezioni disertò al 60% le urne, consentendo a Bonaccini una vittoria veramente striminzita? È l’interrogativo che si pongono le componenti più avvertite che guardano alle imminenti elezioni umbre, per capire dove soffia il vento, e guardano anche con analoga apprensione alle mosse che il “Giancattivo” di Rignano metterà in campo, che se dovessero causare un’emorragia di voti senza aumentare il totale complessivo sarebbero ancora una volta l’ennesima martellata sugli zebedei che Renzi affibbia al suo ex partito e all’intero campo democratico.

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