Una petizione su change.org per “impedire che i giudici continuino a buttare fuori la gente dalle proprie case” e chiedere il ritiro di un disegno di legge sul recupero crediti considerato “pericoloso per il Paese”. È la nuova iniziativa lanciata da Sergio Bramini, l’imprenditore monzese dichiarato fallito “nonostante un credito di 4 milioni di euro verso lo Stato”. Vicenda che lo aveva reso in breve tempo il simbolo di chi viene vessato fino allo stremo dal fisco. Fino ad aprirgli le porte del ministero dello Sviluppo, dove è approdato come consulente per decisione dell’allora vicepremier Luigi Di Maio. Obiettivo: scrivere una norma che tutelasse casi analoghi al suo. La norma nel frattempo è arrivata. Ma Bramini resta consulente del governo. E ora lancia una petizione al – nuovo – governo. Un corto circuito che lui spiega così: “Ho profondo rispetto per il ruolo che ricopro, ma quando vedo un’ingiustizia, che sia di destra o di sinistra, non posso starmene zitto”. Ma perché lanciare un appello pubblico anziché sfruttare i suoi contatti all’interno dell’esecutivo? ’“Mi sono rivolto a tanti parlamentari nel corso degli ultimi mesi”, dice a Ilfattoquotidiano.it, “ma nessuno mi ha dato ascolto. La petizione era l’unica soluzione”.
Bramini: “Anche contro la mia legge è intervenuta una manina in Parlamento”

I motivi che stanno alla base dell’iniziativa risalgono al dicembre del 2018, quando l’ex maggioranza gialloverde ha approvato il cosiddetto decreto Semplificazioni. Al suo interno era contenuta una modifica dellarticolo 560 del codice di procedura civile che lo stesso Bramini ha contribuito a scrivere (tanto che fra gli addetti ai lavori oggi si parla proprio di “legge Bramini”). Cosa prevede? “Che un debitore non possa essere cacciato con la forza dalla propria abitazione finché non viene attestato il trasferimento della proprietà. In questo modo si ha più tempo per trovare i soldi necessari per saldare i conti con il Fisco e si evitano momenti traumatici per sé e per la propria famiglia, come quelli che ho vissuto in prima persona”, aggiunge l’imprenditore. Fin qui tutto bene, peccato che pochi mesi dopo il via libera in Cdm siano arrivati i problemi. “In fase di conversione in legge del decreto è intervenuta la solita manina che ha tolto un elemento fondamentale”, continua. E cioè “l’estensione di queste nuove regole anche alle esecuzioni in corso. Un passaggio che avrebbe permesso a tanti di non essere sbattuti fuori dalle proprie abitazioni”. Registrata quindi l’indisponibilità da parte di diversi senatori a intervenire con un emendamento, Bramini ha deciso di lanciare una petizione pubblica.

Ma non è tutto, perché la sua seconda richiesta è quella di ritirare il ddl 755, depositato lo scorso agosto in Senato dal leghista Andrea Ostellari e co-firmato da Romeo, Pillon, Pellegrini e Candura. “Aiutatemi a fermarlo, altrimenti gli avvocati si trasformeranno in giudici e potranno fare un’ingiunzione, un’ipoteca immediata, o addirittura prelevare dal nostro conto corrente anche delle piccole somme”, chiarisce. Perché non parlarne direttamente con il suo Ministero? “Il partito di Salvini ha mantenuto la presidenza delle sue Commissioni in Parlamento, perciò il rischio che questo disegno di legge vada avanti è reale”. Nelle intenzioni della Lega, infatti, il provvedimento dovrebbe “semplificare l’attività burocratica dell’amministrazione della giustizia civile”. Secondo l’imprenditore, invece, si rischia di “dare un assist a chi prende parte ai processi, dai notai alle banche”. Uno scenario che lui vuole evitare a tutti i costi, specie dopo l’esperienza vissuta sulla sua pelle.
La storia dell’imprenditore monzese e i dubbi del Csm
“Era il 2005 quando la pubblica amministrazione ha smesso lentamente di pagare le fatture della mia società”, racconta Bramini, che all’epoca guidava la Icom, un’azienda impegnata nella raccolta pubblica dei rifiuti soprattutto nel sud Italia. “Negli anni seguenti c’è stato un lento declino: ho accumulato fino a 4 milioni di debiti con lo Stato, finché nel 2011 sono stato costretto a chiudere i battenti”. Da lì è iniziata una battaglia nelle aule dei tribunali, culminata con lo sgombero della sua villetta di Monza. Tutti passaggi avvenuti sotto i riflettori dei media, in particolare quelli della trasmissione televisiva Le Iene, fino a suscitare l’interessamento della politica. Ma del caso, come raccontato da La Stampa lo scorso aprile, si è occupato anche il Consiglio superiore della magistratura: in un documento a tutela del giudice Simone Romito incaricato del pignoramento della casa di Bramini, i giudici hanno sollevato più di un dubbio sulla reale entità dei debiti dell’imprenditore. L’ipotesi è che la sua società avesse ammanchi per “3,8 milioni di euro: 1,7 con il fisco, 1,1 con i fornitori, il resto con le banche”, di conseguenza “è falso che la Icom sarebbe stata fatta fallire per le inadempienze di enti pubblici, che pure ci sono state e non si vuole trascurare”. Accuse da cui Bramini si era smarcato, spiegando che se lo Stato avesse sborsato quanto dovuto, la sua azienda avrebbe in ogni caso evitato il fallimento.
A fine 2018, comunque, per lui è arrivata la prima buona notizia: il tribunale di Brescia ha riconosciuto all’imprenditore “l’accesso alla procedura di sovraindebitamento e il decreto di apertura della liquidazione”, bloccando di fatto ogni azione esecutiva a suo carico. “Una magra consolazione”, commenta lui al Fatto.it. “Il tribunale di Brescia e quello di Monza continuano a pensarla diversamente, c’è stato un accanimento nei miei confronti. Ma io non mi arrendo e vado avanti con il mio lavoro, confidando nel supporto di tutti i cittadini”.
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