“Il mondo per me è un mistero”. Così recita il ragazzo testimone di sparizioni, incendi, ribellioni del cuore e dell’anima. In altre parole dell’essenza profonda del vivere. Perché parlare di Burning – L’amore brucia, l’ultima magia in cinema del sudcoreano Lee Chang-Dong nelle sale da oggi, significa in sostanza parlare della vita. D’altra parte il 65enne cineasta coltissimo e assai poco prolifico (il suo ultimo film, Poetry, risale a nove anni fa) parte da lontano nell’intessere le sue storie che – ad ogni giro – si pregiano di universalità, sospese nel tempo e nello spazio, e dunque capaci di parlare a ciascuno di noi, a prescindere da lingua, cultura, appartenenza sociale ed orientamento politico.

Non fa eccezione questa sua quinta fatica di ben 148’ (ma volano in un battito d’ali) dalla duplice fonte d’eccellenza: da una parte il racconto Granai incendiati di Murakami e dall’altro la short story di William Faulkner, già prequel della Snopes trilogy e che a sua volta sta alla base dello stesso scrittore giapponese. La forza evocativo-narrativa dei due grandi letterati unita alla capacità immaginifica di Chang-Dong elevano Burning – L’amore brucia su livelli di bellezza e di profondità di rara intensità al punto che l’opera ha letteralmente stregato la critica presente a Cannes 2018 – dove concorreva – che l’ha giudicata con il massimo dei voti, sortendo la media più alta di sempre comparsa sulla rivista Screen International. La nota non è casuale ed anzi, rafforza l’universalità di cui l’autore sudcoreano, peraltro politicamente impegnato in patria dove è anche stato ministro della Cultura, è in grado di profondere nei suoi testi.

Al centro di Burning è Jongsu, un ragazzo di un paese al confine fra le due Coree con velleità letterarie che si guadagna da vivere facendo il corriere a Seul: dal suo incontro con la compaesana Hanei scaturisce una relazione sentimentale destinata però ad interrompersi quando la ragazza torna da un viaggio in Africa accompagnata da un nuovo amore, un giovane ricco ed estroso. Ben presto Hanei scompare misteriosamente e Ben, il suo nuovo ragazzo, mette in evidenza le sue tendenze piromani attraverso una bizzarra ossessione ad incendiare i granai.

Depistando lo spettatore da ogni certezza sulla veridicità del “visibile”, Chang-Dong amplifica e stratifica la forza dell’assenza (il “fuori campo”) nel cinema, rimarcando la dimensione misteriosa e ambigua della vita, seppur colta nell’apparente linearità di semplici gesti. Fantasmi, elementi naturali, sguardi volti a dimensioni “altre”, sospensioni, paure e desideri mai raggiunti, oltre ad un significativo discorso politico espresso dal “confine”, luogo di incontro/scontro fra Coree e visioni di mondo: di questo e molto altro si nutre la fiamma di Burning, un’opera così intimamente maestosa che qualunque commento non vale l’imprescindibile visione.

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