Da qualche giorno il nuovo governo ha iniziato a muovere i suoi primi passi e continua a essere accompagnato sia da fastidiosi strepiti esterni che da preoccupanti cigolii interni. Un concerto altamente disturbante, per chi ha salutato il salvamento raggiunto al rotto della cuffia dopo il fallito colpo di mano del sub-comandante Matteo Salvini. Tanto da indurre timori sull’effettiva tenuta temporale del Conte bis.

Sul fronte esterno suscita preoccupazione la saldatura tra le caciare a disco rotto del becerume destrorso, aggrappato all’unico argomento terroristico che conosce, e l’azione propagandistica, antigovernativa a prescindere, da parte dei massimi organi di informazione nazionali; raccolti nel conglomerato editoriale Elkan-Agnelli-De Benedetti (La Stampa, La Repubblica e il Secolo XIX).

Da un lato la fobia etnica, grazie a cui si incassavano gli apprezzamenti a bizzeffe delle torme di impauriti-incattiviti che vagolano nel Paese, in preda ai fumi dell’insensatezza quale lascito di antichi richiami della foresta reazionaria e delle politiche della paura postmoderne, alimentate da un ceto politico che recepisce il peggio delle lezioni americane. Per inciso, magari qualcuno spiegasse all’ex inquilino del Viminale in cronica frustrazione, che continua a sbraitare monomaniacalmente di “Italia tornata ricettacolo di migranti” se il nuovo governo lascia attraccare la Ocean Viking e i suoi 82 disperati, il cambiamento politico avvenuto. Visto che un atteggiamento meno bullesco verso i partner europei ha portato alla ripartizione degli arrivi tra i vari Stati. Anticamera di auspicate collaborazioni sistematiche.

Dall’altro crea una pressione indebita sul tentativo di dare al Paese un governo decente, l’azione farisaica delle massime testate italiane scatenando le proprie firme a denunciare contraddizioni e tabe genetiche che renderebbero inaffidabile l’esperimento in atto. Esercizio rigoristico a dir poco risibile a fronte di una scena politica persa da sempre nei giri di valzer e nei minuetti più indegni; di cui gli inflessibili censori odierni sono stati in passato testimoni ponziopilateschi. In questo caso una denuncia che diventa gioco al massacro. Se è vero che il governo tenuto a battesimo dal presidente Mattarella risulta l’estremo baluardo prima di scivolare fuori dall’Europa e della caduta in un precipizio tipo greco.

Ma anche dal fronte interno giungono segnali poco rassicuranti. Incarnati al peggio da Luigi Di Maio e dalla sua fregola di non mollare l’osso, che per i 14 mesi gialloverdi si era fatto sfilare dall’egemonismo salviniano. Per cui ora deve prendere le distanze dalla discontinuità accogliente nel porto di Lampedusa e organizza riunioni di componente, per ribadire il proprio azionariato di maggioranza in sede governativa; più volte intitolandosi a titolo di merito i pasticci e le sconcezze compiuti in coppia con la Lega – a partire dagli obbrobri sulla sicurezza – di cui si impanca a pervicace difensore.

Trattasi delle solite maldestraggini di un ragazzo improvvisato, i cui danni potrebbero essere circoscritti da un’azione di governo adulta e responsabile. Ma qui sorgono ulteriori dubbi: questa capacità è presente e in quale misura nel team ministeriale? A partire dal primo ministro.

Giuseppe Conte ha dato prova di notevoli abilità relazionali (quel capitale di credito a livello europeo di cui ha parlato inaugurando la Fiera del Levante) e significativi “istinti combinatori” (culminati nel blend giallo-rosso che sembrava impensabile). Saprà rivelarsi un builder, colui che promuove progetti e ne guida la realizzazione?

Ma il programma esposto alle Camere era niente più dei gramsciani “cenni sull’universo”. A partire da una questione meridionale presentata (giustamente) come centrale, ma che non sembra andare più in là delle eterne ricette fallimentari “soldi e infrastrutture”. Quando il riscatto del Mezzogiorno non è pensabile a prescindere da una vera e propria rivoluzione culturale.

Sicché il Conte manager della politica, oltre a tenere insieme con le arti diplomatiche compagini riottose, dovrebbe spendersi nell’arruolamento di competenze. Ad esempio – per la rinascita del Sud – chi in passato lavorò con passione e conoscenza a valorizzare vocazioni e genius loci. Come Fabrizio Barca e la sua squadra.

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