Dal taglio dei parlamentari al “pacchetto” di riforme costituzionali, che comprenda anche la legge elettorale in senso proporzionale, la fiducia congiunta e la “sfiducia costruttiva” al governo, la riduzione dei delegati regionali, i governatori a Palazzo Madama e la parificazione dei requisiti di elettorato. In altre parole, un’autentica revisione della materia ordinamentale. Il tutto da sottoporre a un doppio referendum nel 2021 che porti dritti al semestre bianco in cui non si possono sciogliere le Camere, causa elezione del presidente della Repubblica. È questa la roadmap per le Riforme con la R maiuscola, solo abbozzata nel programma del Conte bis ma – a detta di molti, in primis Gennaro Migliore – vera chiave di volta dell’accordo M5S-Pd. Un percorso non tanto o solo in funzione anti-Lega, ma disegnato per dare all’esecutivo un profilo riformatore alto, costituente, e l’orizzonte del “governo di legislatura” auspicato da Conte. Un percorso non privo di rischi, che può innescare sfilacciamenti e resistenze. Liberi e Uguali già ne avanza, rivendicando un percorso condiviso in Parlamento anziché “accordi segreti”.

Dal taglio degli scranni al “pacchetto” di riforme
Nell’accordo scritto in 26 punti tra i due partiti quello sulle riforme costituzionali era il decimo, dove tagli e legge elettorale venivano richiamati senza indicare ancora soluzioni e tempistiche. Ora si stanno delineando calendario e strumenti, avendo cura di far convergere posizioni lontanissime ed evitare passi falsi. Il Pd ha sempre votato contro il taglio dei parlamentari che ora manda giù, ma è disposto a votarlo se incorniciato in un contesto di riforme più ampio che incida su altri fronti della materia, a partire da una legge elettorale in senso proporzionale.

Il “pacchetto” prevede – stando ai dettagli forniti oggi da Repubblica – l’introduzione della cosiddetta “sfiducia costruttiva”, per cui viene ammessa una mozione ma solo indicando una maggioranza alternativa; la riduzione dei delegati regionali che partecipano all’elezione del Capo dello Stato; la partecipazione dei governatori a Palazzo Madama quando si tratta di norme che impattano sugli enti di secondo livello; la parificazione dei requisiti di elettorato attivo e passivo al Senato a quelli della Camera che significa 18 anni per votare, 25 per essere eletti. Sul piatto c’è anche il voto di fiducia all’esecutivo in seduta congiunta per limitare i pericoli – spesso registrati negli ultimi anni – derivanti dalla presenza di “numeri” diversi tra i due rami del Parlamento (problema che persiste anche oggi, visto che Conte ha alla Camera ha un vantaggio di 33 voti sui 315 necessari, ma solo 6 al Senato, dove può contare su 167 quando la maggioranza è di 161).

Il cavillo (mai usato) per mandare in porto le riforme
Se le riforme costituzionali non si limitano più a una legge si tratta di stabilire come e quando incardinarli lungo i prossimi tre anni. Il taglio dei parlamentari era “irrinunciabile” e da calendarizzare “subito” per il M5S, tanto da essere usato sia da Salvini che da Di Maio come scialuppa nei giorni del naufragio di legislatura. Per recuperare il tempo necessario alle altre riforme serve tempo. Il taglio (manca solo un passaggio alla Camera), sarebbe da calendarizzare non subito e non prima di novembre, magari dopo la conclusione della sessione di Bilancio, così da dare altri 8 mesi alla maggioranza per approvare la legge-cornice di riforme costituzionali voluta dal Pd.

La soluzione al rebus dell’accordo demo-grillino – è l’indiscrezione di Repubblica – l’avrebbero trovata gli esperti di cavilli legislativi dei due partiti rispolverando una legge del 1970 mai applicata prima. Si tratta della 352, il cui articolo 15 sembra scritto per togliere le castagne dal fuoco. In sostanza: se c’è un referendum alle porte il Presidente della Repubblica può ritardarne l’indizione fino a sei mesi qualora un’altra legge di riforma costituzionale debba essere sottoposta ai cittadini. Il legislatore ha previsto l’accorpamento in modo che i due referendum costituzionali si svolgano contemporaneamente con unica convocazione per il medesimo giorno. Oggi quella possibilità diventa la cerniera dove tutto può scorrere fino al 2023. Uno scadenzario del genere porterebbe le lancette del Parlamento a luglio o a settembre 2020. Da quel momento tutto slitterebbe di altri sei mesi per indire in un solo giorno i referendum confermativi. Poi lo stop del semestre bianco per eleggere il successo di Mattarella. E voilà: tutte le riforme entrerebbero in vigore alle porte delle elezioni che sarebbero indette per scadenza naturale della legislatura.

Leu frena: sì alla legge proporzionale, no ad accordi segreti
E’ fatta, è tutto a posto? In realtà no, perché chi nell’avventura del Conte bis è entrato in posizione minoritaria come Liberi e Uguali vuole (legittimamente) dire la sua ed essere centrale, e non si accontenta certo di accordi a due cui non ha partecipato (Leu appoggia il nuovo esecutivo e per questo ha avuto il ministero della Salute con Speranza). “La riduzione del numero dei parlamentari produce una oggettiva distorsione della rappresentanza politica, in particolare al Senato. È indispensabile, quindi, accompagnare la riforma costituzionale relativa alla composizione di Camera e Senato, con una legge elettorale che attenui gli effetti negativi in tema di rappresentazione territoriale e politica”. Parola di Federico Fornaro che di Leu è capogruppo alla Camera. “Non servono accordi segreti, ma un confronto parlamentare che parta da una proposta della maggioranza”, avverte. E poi apre: “Per noi, e non da oggi, la formula proporzionale per l’assegnazione dei seggi è senza ombra di dubbio quella che meglio risponde alle oggettive obiezioni sulla distorsione prodotta sui territori da una Camera con 400 deputati e un Senato con 200 senatori”. Insomma, la via per trasformare il governo nato anatroccolo nel cigno riformatore c’è. Bisognerà superare sterpi e scansare il rischio della palude.

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