Google calpesta il diritto alla riservatezza quotidianamente e lo fa in ottima compagnia degli altri colossi che attraverso Internet fagocitano le nostre informazioni personali, le elaborano e le analizzano fino a generarne di impreviste o – almeno per noi umani – imprevedibili.

L’ingiustificabile risposta del motore di ricerca, a fronte dell’istanza volta a conoscere le cause del decesso di una persona nota, è la dimostrazione che in certi antri digitali le belve locali non si preoccupano di straziare virtualmente le nostre carni a dispetto della privacy e di qualsivoglia altro diritto fondamentale.

L’episodio che ha portato a pubblicare online una informazione, priva dell’indicazione della fonte che la ha generata, porta ragionevolmente a dubitare della liceità del possesso di un certo dato (acquisito irritualmente o illegalmente oppure desunto o generato da qualche algoritmo) e a domandarsi se ancora esistano etica e rispetto della dignità umana. E’ inspiegabile come Google abbia replicato al quesito online sulle cause della morte del Garante Europeo della privacy sentenziando l’individuazione della malattia che ne ha determinato la prematura scomparsa: quell’informazione non era pubblica, non era mai stata riportata da siti o giornali, non era trapelata sui social o diffusa altrimenti.

Dove è stata addentato quel delicato elemento di conoscenza, privatissimo per il dolore che lo accompagnava? Come può essere stato “creato” da una macchina o da un programma? Tutti si aspettano che dagli uffici di Mountain View il colosso californiano sputi la verità, ma in realtà sarà rivelata solo la propria versione dei fatti e si continuerà a parlare di inspiegabile incidente. Se davvero così fosse la preoccupazione è destinata a salire alle stelle: l’intelligenza artificiale alla base del funzionamento di quel sistema è fuori controllo o fa quel che non dovrebbe. Forse la “IA” – come le bestie feroci – nella sua gabbia viene alimentata con dati e informazioni reperite non nel pet food del web e delle piattaforme social ma raccattate probabilmente altrove.

Qualche cartella clinica è stata parcheggiata o trasferita tramite Google Drive? Esiti di accertamenti medici o altre diagnosi sono stati spediti con una casella di posta elettronica Gmail? Le strutture ospedaliere si avvalgono dei servizi di hosting o di cloud offerti da Google? Queste e altre inquietanti domande sono destinate a non trovare risposta. L’impenetrabilità di simili architetture informatiche rendono pressoché impossibile qualsiasi attività ispettiva. Inutile chiedersi “cosa succede lì dentro?” perché vale il dantesco “vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole e più non dimandare”.

Quando certe realtà vengono tecnicamente definite Ott o Over-The-Top, il riferimento non è solo valido per la loro infrastruttura tecnologica. Purtroppo stanno “sopra a tutti” anche nel quotidiano ed è titanico lo sforzo per contrastarne il loro libero predominio delle nostre vite. Sono loro a condizionare le leggi, quest’ultime troppo lente nella redazione e nel successivo varo di regole destinate ad arrivare sempre troppo tardi. La normativa insegue e cerca di frenare la libertà di azione degli Ott, senza riuscire a definirne i limiti e a sanzionarne davvero le violazioni. Ci si consola spesso nel leggere di multe iperboliche (che non si ha mai certezza vengano pagate) ma ogni giorno si sprofonda in un incubo orwelliano felici di render pubblici i nostri pensieri, mostrare le nostre foto, esibire “like” e altre preferenze.

Giovanni Buttarelli ha rappresentato un modello di impegno civile per la tutela della riservatezza dei dati personali. Quel che è successo, forse, ha voluto essere il suo postumo disperato richiamo ad un problema cui lui ha dedicato un quarto di secolo. Che il suo lavoro non vada sciupato. Se si tratta di una staffetta, ci si sbrighi a raccoglierne il testimone.

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