Gli anniversari sono una moneta a due facce. Aiutano a riflettere, comprendere il passato per disegnare un futuro migliore, costruire una visione. Nello stesso tempo, riaprono ferite ancora fresche, rinnovando il dolore, la rabbia, la tristezza. E gli anniversari offrono anche occasioni d’oro per le visite del buon pastore, come avevo battezzato le gite dei potenti nelle aree alluvionate. Visite che, negli ultimi tempi, si erano un po’ diradate a Genova, dopo il frenetico attivismo e i proclami surreali della prima, seconda e terza ora, seguiti al crollo del viadotto Polcevera.

La notizia più fresca, accolta con giubilo da molti, è invero una triste notizia: la proroga dello stato di emergenza. Se, dopo un anno, il collasso di 250 metri di un ponte lungo un chilometro è tuttora una emergenza, viviamo una realtà poco felice. Proroga ed emergenza non sono parole qualunque, bensì rosolio per le orecchie di governanti e imprenditori, anche perché vivere l’emergenza nel luogo dell’emergenza è compito altrui. John Dickie (University College London) ha scritto che la nostra penisola, per ragioni storiche e ambientali, è la nazione europea più incline ai disastri. E che la narrazione apocalittica associata a questa inclinazione ha spesso giustificato l’esaltazione dell’eccezionalità degli eventi da parte di maggiorenti, media e intellettuali, quale diversità intrinseca del nostro paese.

Senza dubbio la storia d’Italia è costellata da vicende classificate come eccezionali – quando non sono “eccezionali veramente” – a partire dall’alluvione romana del dicembre 1870 e da quelle padane di due anni dopo, altrettanto se non più gravi. Dai terremoti di Casamicciola e del ponente ligure degli anni ‘80 del XIX secolo alla frana di Sasso (poi Sasso Marconi). E da eventi estranei all’idrologia e alla geologia, ma legati all’assetto sociale e ambientale, come l’epidemia di colera nel napoletano del 1884 o la titanica lotta alla malaria intrapresa dal fascismo con la bonifica integrale.

Sempre disastri erano e le politiche di emergenza post-disastro sono da sempre un must dei governanti pro-tempore. Il viadotto Polcevera entra così a pieno diritto nell’interminabile elenco delle catastrofi che hanno plasmato e continuano a plasmare la nostra storia, economica e sociale; ma con scarsa attenzione al destino di chi dal disastro fu direttamente colpito. L’archetipo di un paese incapace di ripristinare la normale circolazione in meno di un anno, come fecero a Minneapolis qualche anno fa senza rinunciare all’ebbrezza della gara d’appalto. E un simbolo irrazionale, per dimensioni e funzione, alimentato al principale scopo di distrarre la massa.

Ora che non c’è più, comprendiamo come il ponte fosse un mostro che occludeva la valle, una ferita del paesaggio che l’ardita soluzione strutturale ed estetica di Riccardo Morandi non era comunque in grado di compensare. Un manufatto utile alla circolazione europea lungo la E80 che collega Lisbona a Gürbulak, ma destinato a svolgere localmente una funzione sbagliata: supplire alla cronica incapacità di costruire una viabilità urbana degna di una grande città, unire la città di ponente con il centro e, nello stesso tempo, consentire alla classe dirigente che abita in centro di bypassare ad alta velocità la città, attraversandola al volo senza neppure accorgersi di ciò che stava sotto.

All’epoca, rinunciare alla soluzione a unica campata, stile Golden Gate Bridge, era stato certamente un errore paesaggistico e – come narrato da un anziano collega che seguì la vicenda da vicino – una forzatura del bando per risparmiare sui costi dell’opera. Ma l’errore più grande fu la concezione stessa del sistema autostradale genovese, incardinato sulla penetrazione cittadina iniziata con la “Camionale”, oggi A7: “opera di romana grandezza” che il Re Vittorio Emanuele III inaugurò il 29 ottobre 1935, dopo tre anni di intenso lavoro. Per questo motivo, il viadotto Polcevera era un Ponte del Diavolo, ancor prima del tragico crollo che lo ha inserito di prepotenza in questa categoria. Un non luogo, fonte di inquinamento atmosferico e acustico per gli abitanti della valle, gli esclusi destinati a convivere con il triste pachiderma, giacché non ricordo altre città italiane con interi quartieri spappolati dall’autostrada.

Condividendo il dolore per la strage degli innocenti provocata da un disastro dalla dinamica tuttora inspiegata, i baby boomers genovesi della diaspora vivono questo anniversario anche e soprattutto con tristezza. Forse con troppa saudade, abbiamo scritto una canzone (Genoa Bridge Collapse) ispirata alla metrica di Giorgio Caproni, poeta d’origine toscana, ma genovese d’adozione che scrisse: “Quando mi sarò deciso d’andarci, in paradiso ci andrò con l’ascensore di Castelletto”. E proprio la piazza di Castelletto è il fulcro del disegno urbanistico genovese del’800, fondato su un organico sviluppo verso l’alto grazie alla circonvallazione a monte, raccordata da vie lineari che seguono il gradiente principale.

Con una ispirazione affine a quella delle strade di San Francisco post-terremoto 1906, questo disegno era frutto della visione del più grande ingegnere, architetto e urbanista genovese del XIX secolo, Carlo Barabino (1768–1835). Per tutto il XX secolo la città ha tradito questa visione, firmando un patto faustiano, come dice la canzone. Un accordo con il diavolo siglato non soltanto per costruire il Ponte sopra la testa degli abitanti indifesi, ma anche per coprire ogni rivo, cementificare ogni pendio senza un sistema di circonvallazioni, seminare impianti a rischio nell’area urbana, allocare in modo irrazionale industrie, residenze e servizi.

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