Una delle prime cose a cui abbiamo fatto caso, sabato mattina appena entrati in metro, è stato il look del ragazzo seduto accanto a noi. Corpetto argentato, stivali glitterati con tacco acrobatico e vistoso trucco sul volto. Non che fosse poi così strano: New York in questi giorni è un tripudio di bandiere rainbow. E ieri, il giorno del World Pride, c’era gente con le insegne arcobaleno in ogni dove. Alla nostra sinistra due donne, probabilmente madre e figlia. L’ennesimo arcobaleno in mano. Siamo nella direzione giusta.

Le parole più pronunciate sono happy pride. Te lo dicono i/le militanti delle associazioni americane, appena capiscono che sei della delegazione italiana. Te lo dice la gente per strada, quando ti incontra. Arriviamo al punto del check in. In America non è come in Italia, che vai e segui il corteo. Devi far parte di un gruppo registrato. Ti assegnano un posto e aspetti di partire. La giornata è fresca, contrariamente ai giorni passati, dominati dall’afa. Attendiamo il nostro turno. Decidiamo di cantare. Si va di Bella ciao, l’immancabile Raffaella Carrà con Tanti auguri, si arriva persino a Modugno e a La società dei magnaccioni. Tutto si fa subito più allegro.

Si prendono gli striscioni, si srotolano le bandiere. Ci sono diverse delegazioni, dall’Italia. Tra cui quella di Arcigay, Famiglie Arcobaleno e quella del Roma Pride, con il Mieli in testa insieme ad altre associazioni (Rete Lenford, Omphalos, Cgil Nuovi Diritti, ecc). Tra le nostre insegne, tra cui quella dell’Unione Europea, spuntano alcune bandiere italiane. Non ricordo se subito prima o subito dopo il canto dell’Inno di Mameli. Nel frattempo la delegazione di Boston si accorge di noi: Happy pride ci salutano, ancora. Siamo tutti parte della stessa gioia. “Non dobbiamo lasciare i nostri simboli alla destra” mi dice Gianni, sposato con Rosario in Portogallo, qualche anno fa, dopo una convivenza più che ventennale.

Mi avvicino ai ragazzi che portano il tricolore. Chiedo loro perché. “Proprio questo ha un significato particolare, per me” mi confessa Ario, che vive a Milano dove studia moda. “Dovevo fare uno shooting per un lavoro universitario” continua, “avevo disegnato una giacca che ho fatto indossare ad un ragazzo immigrato. Insieme alla giacca, gli ho fatto indossare proprio questa bandiera. La stessa che oggi porto qui, in questo corteo”. Per Antonio, l’altro ragazzo a cui chiedo il perché della sua scelta, rappresenta il valore simbolico della nostra identità. Un simbolo che non può e non deve fare distinzioni per il colore della pelle, per le identità sessuali, per le differenze che ci caratterizzano.

Il corteo, intanto, è partito. La gente si accalca ai lati, oltre le transenne. Lo spezzone italiano – oltre 400 persone – è accolto da un grande entusiasmo tra sorrisi, strette di mano, selfie e abbracci. Una donna attira la nostra attenzione: “Lei è mia madre” ci dice. Punta verso il basso. C’è una signora in sedia a rotelle. Non sapresti dire la sua età, puoi solo dire che è una donna molto anziana. Ha un cartello con sé: “Adoro mia figlia lesbica“. La salutiamo, abbracciandola. Lei si commuove. Asciuga le sue lacrime. Non possiamo fare a meno di esserle grati. Perché accade questo, in questi momenti: la mamma di una persona soltanto diventa la madre di tutti e tutte noi.

E poi le cose vanno come devono andare. Altre madri, con bambine travestite da unicorni. La gente seduta sulle sedie da picnic, magliette e trucchi rainbow. Persone che vedi una volta l’anno, a questo o a quel Pride in Italia, e che adesso ti ritrovi lì. Sconosciuti con cui incroci uno sguardo, con cui fai amicizia, con cui scambi un abbraccio che ha qualcosa di molto simile alla tenerezza. Il Pride, in fondo, è anche questo. Poi passiamo di fronte allo Stonewall Inn, il bar in cui 50 anni fa tutto è cominciato. Una tappa obbligata. La piazzetta antistante è stata dichiarata monumento nazionale dalla passata amministrazione Obama. Lì ci trovi due coppie di statue, che rappresentano due donne e due uomini. Sono dipinte di bianco, qualcuno ha messo dei garofani su di esse.

Come ho scritto altrove, se entri in quel bar quasi non ti capaciti di quanto sia piccolo, al suo interno. Eppure, da lì tutto ha avuto inizio. La rabbia, la ribellione ai soprusi della polizia, la rivoluzione. La stessa che ha reso un pezzo di mondo un posto più giusto. Un punto incredibilmente piccolo, che ha generato tutto ciò che è stato. Il nostro piccolo big bang. La vita, la nostra, che è esplosa tutta insieme divenendo futuro. Divenendo quel “qui ed ora” in cui un’incredibile catena umana – gli organizzatori si aspettavano quattro milioni di partecipanti – ti ricorda che non si può e non si deve tornare indietro. Lo dobbiamo a chi ci ha preceduto. Lo dobbiamo a chi verrà dopo di noi.

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