di Gabriele Gelmini

Nel 2006 i maturandi si erano trovati a dover dividere lo studio matto e disperatissimo per gli esami con i Mondiali di calcio. Più il tempo passava, più la maturità si avvicinava, più l’Italia raggiungeva i traguardi che tutti speravamo. E infatti, al termine degli esami, il 9 luglio gli Azzurri diventavano campioni del mondo. Un grande successo per la Nazionale; un po’ meno per gli studenti, costretti a barcamenarsi tra tifo e libri.

Personalmente speravo che non mi sarebbe accaduto nulla di simile; e quando nel 2010, anno della mia maturità, l’Italia rimase fuori al primo turno, mi sentii un po’ sollevato. Forse avevo gufato, ma almeno mi ero tolto un peso. Povero illuso.

Il pomeriggio subito dopo la prima prova, il tema d’italiano, mi piazzai davanti alla televisione per vedermi qualche partita di Wimbledon. Da grande appassionato di tennis, e da studente decisamente incapace in matematica – lo spauracchio più grande per chi affronta la maturità scientifica – avevo deciso di esorcizzare in quel modo la paura per il compito che mi sarebbe toccato l’indomani. E la mia attenzione scivola tutta sul match Isner-Mahut, valevole per il secondo round del torneo. Una partita normale: il primo set a Isner, il secondo a Mahut, il terzo di nuovo a Mahut e il quarto, dopo un tiebreak parecchio avvincente, a Isner. Match sospeso per oscurità alle 21 locali, le 22 in Italia. E io intanto andavo a dormire terrorizzato.

Il giorno dopo, la seconda prova di maturità: un fiasco totale. Sei ore a studiare funzioni, calcolare volumi e immaginare seni e coseni. E non era finita lì: una volta tornato a casa mi sarei dovuto dedicare alla famigerata terza prova, che giusto quell’anno si sarebbe svolta in anticipo, due soli giorni dopo. Un po’ per dimenticare, un po’ per distrarmi, decido di pranzare davanti alla tv. Una volta finito il match – mi ero ripromesso – torno sui libri. Peccato che il match non finì.

I tornei del Grande Slam (i maggiori quattro tornei di tennis: Australian Open, Roland Garros, Wimbledon e Us Open) prevedono una regola particolare (o meglio, prevedevano: oggi resiste solo nel torneo parigino): se in un incontro i giocatori arrivano al quinto set, non esiste il tiebreak. Per i non addetti ai lavori, non esiste uno spareggio finale: si va avanti finché il vantaggio non è netto. Nel caso del tennis, finché uno dei due giocatori non supera di due game l’avversario. Il tiebreak è appunto questo spareggio finale, la possibilità di liquidare il set in maniera rapida. La regola, appunto, non vale nell’ultimo set: e Isner e Mahut erano giusto arrivati a quel punto. Si trattava solo di capire chi avrebbe vinto e con quale punteggio.

Arrivati al 5 pari, mi ricordo dell’assenza di tiebreak: la partita si fa più avvincente. Al 7 pari mi preparo per capire chi, di lì a poco, avrebbe ceduto per stanchezza o per tenuta mentale. Al 12 pari era chiaro che mi stavo trovando di fronte a una partita che non si sarebbe chiusa immediatamente e al 15 pari riflettevo sulle posizioni dei due giocatori nel ranking mondiale: uno 23esimo, l’altro 148esimo. Assolutamente immeritate.

Purtroppo accade il fattaccio: prendo il libro di filosofia – una materia che si presta poco alla leggerezza – e mi ritrovo un paio di ore dopo steso sul divano, con il libro sulla pancia e la tv in sottofondo. Mi sistemo gli occhiali e prendo il telecomando per andare sul Televideo (Dio mio, quanti anni sono passati?!) e consultare il punteggio. Ma non faccio in tempo: la partita stava continuando. Il risultato, ben impresso nella memoria, è 48 pari. Alla faccia.

Accantono il libro, prendo pane e Nutella e vado avanti a guardarli giocare: poesia pura. La partita è sospesa subito dopo cena, per oscurità, sul 59 pari. Io corro a dormire, la mattina dopo mi sveglio presto, studio tantissimo e il pomeriggio me lo tengo libero. Chissà dove sarebbero arrivati.

E la risposta non tarda ad arrivare: 70-68 dopo un’ora e mezza. La partita più lunga nella storia del tennis, abbattuti tutti i record fino ad allora registrati. Una meraviglia. Certo Mahut, lo sconfitto, non l’ha presa bene: restano nella mia memoria le sue lacrime di rassegnazione. Ma si sarà accontentato il giorno dopo, vedendo Isner perdere un match in solo un’ora e mezza di gioco, pieno di acciacchi e di problemi alla schiena.

Ecco, alla fine ho avuto il mio personale “mondiale di calcio” anche io, e me lo ricorderò per sempre. Soprattutto perché alla fine la maturità è andata oltre le più rosee aspettative: in fondo, studio e relax si sono conciliati bene. Ma poi, dallo Scientifico sono finito a Lettere. Come diceva qualcuno che i maturandi conoscono bene, “la matematica non sarà mai il mio mestiere”.

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