Accerchiati dalle imprese del legname, cacciatori di metalli e pietre preziose, minacciati dal narcotraffico, la falsificazione di documenti per prendere possesso delle loro terre in modo illegale, opere infrastrutturali, e turismo disordinato, la maggior parte di loro si trova in una situazione di pericolo e conflitto: è la condizione delle tribù indigene che vivono in isolamento nel mondo, la maggior parte delle quali concentrata in America Latina (Brasile, Bolivia, Colombia, Ecuador, Paraguay, Perú e Venezuela), nella regione amazzonica. Dal 2005 al 2019 il loro numero è raddoppiato, passando da 84 a 185, e di queste 119 si trovano in una condizione estremamente preoccupante, soprattutto in Brasile, Perù ed Ecuador.

Secondo il rapporto presentato dal brasiliano Antenor Vaz, consulente dell’università federale di Paraiba, al Forum permanente delle Nazioni Unite sulle questioni indigene, fuori dal continente americano le uniche tribù isolate si trovano in India e Papua Nuova Guinea. Molti sono guerrieri che si difendono con l’arco e la freccia, altri cacciatori-raccoglitori, altri ancora nomadi capaci di costruirsi una casa in poche ore, e abbandonarla pochi giorni dopo. In tutti i paesi, rileva Vaz, sono state ridotte le risorse destinate a politiche specifiche per queste tribù e lo Stato non sa localizzarli né proteggerli in modo efficiente. I loro territori sono sotto l’insidia dei grandi progetti governativi e privati, azioni illecite, soprattutto nelle regioni di confine, dove la presenza protettrice dello Stato è minima.

Il paese con il maggior numero di popoli indigeni in situazioni di isolamento e territori a loro destinati è il Brasile, con 114, di cui solo uno è fuori dall’Amazzonia. “Il Brasile è stato pioniere nello sviluppo di pratiche di protezione abbastanza efficienti, che hanno portato all’istituzione di molti registri di tribù isolate – commenta Vaz –. Dal 1987 il paese ha scelto una politica di ‘non contatto’ a meno che non sia estremamente necessario o non lo richiedano gli stessi indigeni”, istituendo un sistema di protezione giuridico per il loro territorio, anche se fragile. Difatti il nuovo presidente Jair Bolsonaro, appena insediato, ha firmato un decreto con cui ha ritirato alla Fondazione Nazionale degli Indigeni (Funai) la facoltà di identificare e delimitare i territori delle comunità indigene, attribuendola al dicastero dell’agricoltura.

Il Venezuela è uno dei paesi dove la situazione per queste tribù è più difficile, visto che ufficialmente il paese non riconosce alcun gruppo in situazione di isolamento, sostenendo che sono tutti integrati e non servono misure di protezione, mentre ci sono aziende petrolifere e minerarie li minacciano, insieme a gruppi armati di narcotrafficanti. La Colombia invece nel 2018 ha approvato una legge dopo tre anni di lavoro, che però è in fase di implementazione. Qui le principali minacce sono rappresentate dall’espansione delle coltivazioni di coca e le attività minerarie. Anche il Perù può contare su una legislazione apposita, ma pure in questo caso incombono le aziende petrolifere e del legname, mentre la Bolivia, pur avendo previsto una cornice giuridica ampia, non dispone di strumenti per la definizione del territorio di queste tribù.

Ecco perché un’impresa cinese è stata autorizzata a fare studi preliminari con esplosivo per cercare petrolio. L’Ecuador nel 1999 ha creato un territorio chiamato Zona intangibile, destinata alle tribù Tagaere e Taromenane, e 20 anni dopo ha inserito nella Costituzione un articolo sui popoli in isolamento volontario, ma secondo Vaz, molto poco è stato fatto nella pratica, visto che la principale minaccia è rappresentata dall’attività petrolifera promossa direttamente dal governo. Dal momento che molte di queste minacce arrivano da attività illegali avallate o finanziate direttamente dai governi, conclude Vaz, “è urgente che le politiche di protezione ‘escano dall’isolamento’ e siano adottate in ogni Stato, facendo partecipare anche le organizzazioni indigene”.

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