La vicenda del caso Avastin-Lucentis non è chiusa. A cinque anni dalla sanzione inflitta dall’Antitrust ai due colossi svizzeri Roche e Novartis, il Consiglio di Stato non ha ancora emesso la sentenza che confermi la multa e la restrizione della concorrenza (già riconosciuta dalla Corte europea). Lasciando l’Italia col fiato sospeso davanti a uno dei più grandi scandali legati al diritto alla salute dei suoi cittadini, a cui Giovanni Pitruzzella e Luca Arnaudo, rispettivamente l’ex presidente e funzionario dell’Authority per la concorrenza, hanno dedicato un capitolo del libro La cura della concorrenza (Luiss university press), in libreria dal 18 aprile. Una lente di ingrandimento su un’era storica, la nostra, che deve fare i conti con farmaci sempre più costosi e la sostenibilità delle spese per i Paesi, sia ricchi che poveri. E nella quale l’Antitrust applicata al settore farmaceutico, nata una decina di anni fa, “diventa il prodotto di questa crisi” ci spiega uno dei due autori, Arnaudo.

Facile capire il perché: mentre si è alzata l’aspettativa di vita è cresciuta la spesa per le cure (una popolazione sempre più vecchia è anche più fragile), e allo stesso tempo la ricerca ha prodotto molecole d’oro per patologie prima incurabili. “Ora più di prima – continua Arnaudo – la sfida è impedire che le aziende se ne approfittino mettendo in commercio farmaci salvavita con prezzi alle stelle. Dobbiamo difendere il nostro diritto alla salute, capire che i farmaci non sono prodotti qualsiasi ma beni essenziali, e pretendere un’attenzione maggiore sull’accesso alle terapie”. Lo stesso messaggio lo hanno lanciato in questi giorni i delegati dei governi e delle organizzazioni della società civile dal forum globale dell’Oms a Johannesburg. Chiedendo anche più trasparenza sui costi della ricerca, lo sviluppo e la produzione dei medicinali, per poter consentire di negoziare prezzi più convenienti. “Un altro vantaggio si ottiene se al posto delle tante stazioni appaltanti che ci sono oggi ci fosse un’unica centrale d’acquisto per ogni Regione per avere un potere di contrattazione migliore” aggiunge Arnaudo.

Il libro tocca uno dei nervi scoperti dell’industria farmaceutica, ossia il potere esclusivo del titolare dei diritti commerciali di definire l’uso terapeutico della molecola. Come appunto nel caso Avastin-Lucentis per la cura della maculopatia, la grave malattia degli occhi molto diffusa tra gli anziani, che solo in Italia colpisce circa un milione di persone. L’Agenzia italiana del farmaco ha infatti consentito l’uso oftalmico off-label di Avastin (cioè per fini non previsti dal foglietto illustrativo) negli ospedali pubblici e Novartis l’ha impugnato davanti ai giudici amministrativi. Dietro ci sarebbero stati enormi interessi da salvare. Il Garante della concorrenza nel 2014 multava quindi le due aziende farmaceutiche per 180 milioni di euro per un cartello finalizzato a favorire la vendita del farmaco più caro (il Lucentis, da 700 euro circa a iniezione) a discapito di quello low cost (l’Avastin, da 80 euro), efficace allo stesso modo. Un danno per il Ssn che l’Agcm ha stimato in 40 milioni di euro solo nel 2012. “Un istituto di ricerca pubblico o comunque indipendente, deve avere la possibilità di definire le indicazioni terapeutiche – sottolinea Arnaudo -. I farmaci essendo dei beni pubblici non possono rispondere a delle logiche di profitto detenute esclusivamente dal produttore”.

L’insostenibilità attuale del mercato farmaceutico è dettata da un’altra questione trattata nel libro: il “ginepraio brevettuale”. Per intenderci, dal 2000 al 2007 le richieste di brevetto farmaceutico sono quasi raddoppiate. Con il risultato che oggi un prodotto può essere coperto da oltre mille brevetti o domande pendenti in giro per il mondo. Che cosa significa? “All’aumentare delle complicazioni dei diritti di esclusiva” scrivono gli autori, “corrisponde sempre una maggior difficoltà per la leva concorrenziale di operare efficacemente”. La soluzione? “Un unico brevetto europeo, tanto per cominciare” risponde Arnaudo. Nel frattempo l’Antitrust si deve dar da fare per contrastare i comportamenti anticoncorrenziali che le imprese adottano in nome della proprietà brevettuale. Un esempio, viene spiegato nel testo, sono gli accordi “pay for delay”, cioè quando l’impresa del farmaco originatore versa una somma di denaro al genericista per il lancio di un farmaco concorrente, ritardando l’ingresso sul mercato della versione generica. Così ha fatto la società danese Lundbeck con un antidepressivo o il gruppo francese Servier con il principio attivo perindopril. O ancora, il gruppo sudafricano Aspen che l’Antitrust ha multato per oltre cinque milioni di euro per abuso di posizione dominante (anche qui si è in attesa del definitivo grado di giudizio). Quando Aspen ha rilevato un pacchetto di farmaci oncologici dalla multinazionale Glaxo i diritti erano scaduti e ha voluto ricontrattare i prezzi nei diversi Paesi dell’Ue per ottenere un aumento. La scusa è che il numero di pazienti trattati erano pochi e le vendite non bastavano a recuperare i relativi costi di ricerca e sviluppo. Quindi l’Aifa, sotto la minaccia dell’industria di ritirare i farmaci se non avesse accettato, ha concesso aumenti dal 257 al 1540 per cento. Ma secondo le analisi dell’Antitrust, Aspen poteva guadagnare dal 20 all’80 per cento già con i prezzi vecchi. Nel libro di Pitruzzella e Arnaudo i casi abbondano. E l’auspicio dei due esperti è che dell’Antitrust se ne possa un giorno fare a meno. Ovviamente se i governi prestassero maggiore attenzione al diritto della concorrenza.

Il nostro Paese nel 2018 è diventato il primo produttore di farmaci nell’Unione europea, superando per la prima volta la Germania, con un fatturato di 31,2 miliardi di euro contro i 30 dei tedeschi. Una ragione in più per accendere i riflettori sulle logiche che governano il sottobosco di Big Pharma. Oltre al fatto che l’accesso ai farmaci è intrinsecamente legato alla tutela della nostra salute, un diritto fondamentale.

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