Con Renzi alla guida del Paese la storia sembra ripetersi: nel giro di due anni la clausola di salvaguardia introdotta da Enrico Letta viene completamente sterilizzata (6,3 miliardi finanziati in deficit, i restanti 3,7 con maggiori entrate e minori spese), ma all’orizzonte si profilano i provvedimenti annunciati in pompa magna dal neo-premier fiorentino. Il bonus di 80 euro, la “Buona scuola”, la decontribuzione prevista dal Jobs Act. A presidio dei conti viene introdotta la terza, ennesima, clausola di salvaguardia. A quanto ammonta? A 12,8 miliardi per il 2016, a 19,2 per il 2017 e a 22 miliardi per il 2018, da finanziare con un aumento progressivo dell’Iva al 24 per cento nel 2016, al 25 l’anno successivo e al 25,5 per cento nel 2018. “Purtroppo ci troviamo a fronteggiare questo meccanismo atroce delle clausole di salvaguardia perché i governi Letta e Monti hanno disseminato di trappole le vecchie finanziarie”, dichiara Renzi in un’intervista a Repubblica nel luglio 2016. Eppure è proprio lui a mettere l’ennesima ipoteca sulle manovre economiche degli anni (e dei governi) successivi, più alta persino di quella introdotta nel 2011 per salvare l’Italia dal default. Nonostante nel frattempo la legge di riforma del bilancio dello Stato avesse cancellato la possibilità di tappare potenziali buchi nelle coperture di qualsiasi nuova norma con le famigerate clausole.

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