Pochi giorni fa l’ufficio legale della Generalitat ci ha notificato una memoria in risposta ad un atto di impugnazione di sanzioni amministrative di cui come avvocati ci eravamo occupati. L’unico argomento addotto dai legali del governo della Catalogna consisteva nella rimostranza per l’uso – nell’atto del ricorrente – della lingua spagnola, presentando quindi specifica istanza al Tribunale per l’utilizzo del catalano. Il merito della vicenda giuridica ha occupato poco o nulla l’avvocatura, tutto l’interesse era per la questione linguistica.

Il diritto di opzione linguistica è interpretato in senso favorevole agli enti pubblici quando essi sono parti del giudizio, mentre l’articolo 231 della legge sul potere giudiziario considera lo spagnolo come lingua del processo, a meno che tutte le parti in causa non siano d’accordo ad usare una ‘lingua regionale’ ufficiale.

In Spagna sulle vicende linguistiche si sono costruite molte discriminazioni e, nel contempo, intorno a quelle questioni si sono formate molte delle storie dei partiti politici regionali.

Spesso il disprezzo della lingua ‘degli altri’ è una formidabile arma di propaganda politica, in epoca moderna iniziò el caudillo Francisco Franco con controverse circolari che nel 1940 vietavano di fare uso del catalano nella vita pubblica e nel commercio per la composizione delle insegne pubblicitarie. Restrizioni simili toccarono anche le rappresentazioni teatrali e, in virtù di norme emesse dal dipartimento sul cinema, le stesse pellicole cinematografiche. Le lingue regionali, in genere, erano viste come simbolo di resistenza al regime, relegate quindi alla vita privata e, di fatto, degradate a poco più di dialetti rispetto al castigliano, «el idioma del imperio».

In quarant’anni e più di democrazia il centralismo si è ribaltato.

Le ‘lingue regionali’ hanno acquistato peso, sono diventate il fulcro del sistema educativo e della vita pubblica mettendo spesso ai margini il castigliano (una delle tre lingue più parlate al mondo).

Più volte è intervenuta la magistratura per ristabilire gli equilibri: il Tribunale superiore di Giustizia della Catalogna ha emesso diverse ordinanze – l’ultima pochi giorni orsono – con le quali ha obbligato il Dipartimento di educazione della Generalitat a rispettare la soglia del 25% delle ore formative da impartire in lingua castigliana. Già nel gennaio del 2014 l’Alto tribunale, chiamato a pronunciarsi in materia, aveva fissato un limite percentuale – considerata ‘proporzione ragionevole’ – di lezioni in spagnolo lì dove è il catalano la lingua principale di insegnamento (al castigliano sono riservate 2 ore settimanali alle scuole elementari, 3 ore alle medie e 2 negli istituti superiori).

La questione non è di poco conto se si pensa che il 40% della cittadinanza vive in regioni con più di una lingua ufficiale (il galiziano e il basco nel nord, il valencià – come variante meridionale del catalano nella comunidad de Valencia): una ricchezza culturale, riconosciuta nell’articolo 3 della Costituzione del 1978, spesso vissuta con fastidio, come causa di incomprensione culturale o talvolta addirittura come fonte di emarginazione.

Non è difficile imbattersi in genitori italiani ispanofoni residenti in Catalogna che segnalano la personale impasse nel seguire i figli in compiti assegnati rigorosamente in catalano. Nella vita pubblica un tempo poteva accadere di vedere Jordi Pujol, leader degli autonomisti e presidente regionale per oltre vent’anni – ora sotto processo per riciclaggio – rispondere orgogliosamente in catalano a domande rivoltegli in castigliano.

Oggi il fattore linguistico va oltre il valore simbolico assumendo un ruolo più incisivo, centrale perfino nel processo in svolgimento dinanzi alla Cassazione di Madrid contro i capi dell’indipendentismo, chiamati a rispondere di reati gravi, quali rebelión (una sorta di sedizione) e malversazione di fondi.

Lo scorso gennaio, alle prime battute del procés, gli imputati hanno chiesto alla Corte di poter dichiarare in catalano con traduzione simultanea in spagnolo, ciò per vedere garantito il giusto processo. Altri politici, per contro, hanno da subito ritenuto che l’uso dello spagnolo poteva essere più utile strumento per spiegarsi al di fuori della Catalogna, per meglio smontare le tesi della pubblica accusa. Alla fine le dichiarazioni di testimoni e imputati sono rese in spagnolo perché a Madrid è quella la lingua degli atti processuali.

C’è da giurarci, la battaglia linguistica in Spagna non finirà con la sentenza del procés.

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