Senza mettere in piazza le cose di casa nostra, che i lettori potranno segnalare nei loro commenti, il Giappone fornisce un esempio saliente. Nella seconda metà del XX secolo, questo Paese dalle costruzioni tradizionalmente in legno abbracciò il calcestruzzo con l’entusiasmo del neofita, a tal punto che qualcuno battezzò Stato della Costruzione (doken kokka) il nuovo sistema di governo democratico della nazione. Questa scelta fece crescere l’economia con tassi a doppia cifra, assicurando fino a tutti gli anni 80 un’elevata occupazione e una forte stabilità politica, anche se il rovescio della medaglia s’incarnava nel tangibile e capillare peso mafioso della Yakuza. La cementificazione del Giappone era in evidente contrasto con i classici ideali estetici dell’armonia con la natura e del culto del mujo – l’impermanenza ovvero il divenire. Sia l’effetto di saturazione, sia una crescente coscienza paesaggistica e ambientale, smorzarono l’impeto cementizio dopo quel periodo. Alcuni fanno così corrispondere la stasi della crescita economica giapponese degli ultimi 20 anni con il calante vigore del cemento, che a partire dagli anni 90 si è incarnato soprattutto nelle grandi infrastrutture, come le autostrade rurali a quattro corsie e i costosissimi ponti per collegare tra loro le isolette più sperdute.

Il Giappone è una delle regioni con la sismica più attiva. La paura di terremoti e tsunami reclama imponenti misure strutturali. Per quanto brutali, sono le misure più adatte a rassicurare la gente. Tutti sapevano che ingessare fiumi e linee di costa entro grigie barriere era una bruttura, in palese contrasto con secoli di meticolosa cura del paesaggio. A nessuno importava, se ciò avrebbe evitato l’allagamento di casa propria. In questa direzione remano anche la coscienza che bisogna adattarsi ai cambiamenti climatici e, soprattutto, l’impatto psicologico del devastante tsunami seguito al terremoto del 2011. Città costiere come Ishinomaki, Kamaishi e Kitakami erano difese da enormi muraglioni, ma furono sommerse in pochi minuti. Morirono quasi 16mila persone, un milione di edifici furono distrutti o danneggiati, le navi si arenarono lungo le strade cittadine e le carcasse delle automobili riempirono le acque del porto. A Fukushima l’onda inghiottì le difese strutturali della centrale nucleare di Daiichi.

Nonostante l’insuccesso delle difese strutturali, i nuovi governi hanno deciso di finanziare lavori per più di 200 triliardi di yen in dieci anni. I nuovi progetti contemplano difese strutturali ancora più mastodontiche delle precedenti, poiché gli ingegneri civili sostengono che nuovi muraglioni di 12 metri fermeranno o almeno rallenteranno i futuri tsunami. Il valore delle aree protette da queste difese, però, è assai diminuito, poiché quelle terre si sono spopolate, trasformate in risaie e allevamenti ittici. Le foreste di mangrovie potrebbero così fornire un buffer molto più economico e altrettanto efficace. E molti abitanti dei luoghi che furono colpiti da tsunami iniziano a odiare le barriere di cemento che negano l’esistenza del mare.

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Niente pompa il Pil più del cemento, ma a farne le spese è l’ambiente. Benvenuti nell’età del calcestruzzo

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