È positiva la valutazione della Commissione europea sull’attuazione del Codice di condotta per il contrasto al cosiddetto online illegal hate speech, il fenomeno della violenza verbale – specie di matrice razzista, xenofoba e diffamatoria – che affligge il web sin dalle origini e che ha conosciuto, negli ultimi anni, un’attenzione crescente da parte delle istituzioni comunitarie e nazionali. I gestori delle grandi piattaforme hanno gestito le segnalazioni degli utenti e delle organizzazioni specializzate più rapidamente che in passato e rimosso un numero di contenuti, tra quelli oggetto di segnalazione, superiore.

E la commissaria europea alla Giustizia Vera Jourová ieri, in conferenza stampa, ha snocciolato i numeri del proprio ottimismo: l’89% delle segnalazioni è stato gestito in 24 ore e il 72% dei contenuti segnalati è stato effettivamente rimosso. E non manca nei dati diffusi dalla Commissione una specie di classifica, nella quale si misura la rapidità con la quale le grandi piattaforme hanno gestito e risolto le segnalazioni: vince Facebook. La stessa società di Menlo Park è, peraltro – a leggere i dati della Commissione – la leader indiscussa della trasparenza, ovvero la società che ha più di tutte informato sistematicamente i propri utenti dei diversi step del processo iniziato a seguito della segnalazione dei contenuti.

Facebook tiene aggiornati gli utenti nel 92,6% dei casi contro una media del 65,4%, più bassa peraltro che in passato e tale da far dire alla commissaria Jurová che in questa direzione resta ancora tanto da lavorare. Ma l’ottimismo della Commissione non è tale da considerare conclusa la partita. Al contrario, la commissaria alla Giustizia dice chiaramente che la Commissione  continuerà a monitorare l’applicazione del Codice di condotta e se registrasse flessioni nella sua attuazione tornerebbe, immediatamente, a valutare interventi legislativi capaci di porre a carico dei gestori delle piattaforme più stringenti obblighi di intervento, come peraltro ha fatto lo scorso anno in autonomia la Germania, che ha imposto sanzioni milionarie ai gestori delle piattaforme che non rimuovono i contenuti loro segnalati entro le 24 ore.

A scorrere numeri, dati e grafici con i quali la Commissione misura il “successo” del Codice di condotta si resta tuttavia perplessi. Le modalità di misurazione, infatti, sembrano tutte essenzialmente quantitative: il tempo medio impiegato per la gestione di una richiesta di misurazione, il numero di contenuti rimossi in relazione a quelli segnalati, una serie di comparazione tra i gestori delle grandi piattaforme in relazione a questi fattori e poco di più. Manca all’appello – almeno per chi crede che il fenomeno dell’online hate speech sia legato a doppio filo alla questione della libertà di parola e di informazione – qualsiasi genere di misurazione qualitativa sull’effettiva efficacia dei meccanismi di rimozione: quel 72% di contenuti rimossi con così tanta solerzia da Facebook, Google, Twitter & company meritava per davvero di essere rimosso o magari, per far presto e rimuover tanto, si è finito con il condannare all’oblio qualche contenuto che avrebbe meritato di restare online, accessibile al mondo?

A questo aspetto i dati diffusi dalla Commissione europea – così come le parole della commissaria alla Giustizia – dedicano solo una manciata di parole, quasi di passaggio, rilevando che il tasso di rimozione dei contenuti varia in relazione all’oggetto della segnalazione, ovvero è più elevato in presenza di contenuti che invochino a assassini o violenza (85,5%) e cala al 58,5% in relazione a quelli segnalati come diffamatori.

Davvero poco, tuttavia, per suggerire che il Codice di condotta – e ancor di più le metriche scelte per la misurazione del suo funzionamento – non stiano innescando una pericolosa corsa a chi rimuove più in fretta e a chi rimuove di più tra i gestori delle grandi piattaforme, tutti comprensibilmente preoccupati prevalentemente di far bella figura davanti alla Commissione per scongiurare il rischio di ritrovarsi con una nuova disciplina europea della materia analoga a quella tedesca, con sanzioni milionarie per chi non rimuove un contenuto segnalato entro 24 ore.

Se questo stesse accadendo, le parole di ottimismo della Commissione sarebbero a dir poco fuori luogo e dovrebbero lasciare il posto a toni preoccupanti e di profondo pessimismo. Un web con meno parole violente ma anche meno libertà di parola non è un web migliore e soprattutto non è un web più utile ai 500 milioni di cittadini europei che lo frequentano. La giustizia – in qualsiasi forma, specie quando ha a oggetto diritti fondamentali degli uomini e dei cittadini – non può essere misurata e valutata solo in numeri, ma deve essere misurata anche e soprattutto in termini qualitativi: una giustizia veloce ma ingiusta non è migliore di una giustizia lenta ma giusta.

L’auspicio è che, il prima possibile, si inizi a misurare l’efficacia del Codice di condotta per il contrasto al fenomeno dell’hate speech anche verificando, magari a campione, se e quanti dei contenuti rimossi meritavano per davvero di essere rimossi perché, specie quando si parla di illeciti di opinione, il confine tra la libertà di parola e la gratuita e pericolosa violenza verbale è labile e gli errori sono sempre in agguato. Ben venga perdere qualche punto percentuale in termini di rapidità di intervento, se vale a spingere i gestori delle grandi piattaforme – che a dirla tutta non dovrebbero affatto ritrovarsi a giocare il ruolo di arbitri dei contenuti online – a giudicare meglio anziché, semplicemente, più in fretta.

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