Se è vero che un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza e tre indizi fanno una prova, la propensione di molte donne a fare da madri ai propri mariti è un modus operandi diffuso e potenzialmente dannoso per entrambi. È un atteggiamento che, inconscio o meno, conduce dritto alla tomba del matrimonio, sia questa per legge o de facto.

Questo morbo, oltre a percepirlo tutt’intorno, lo capisco bene perché ogni tanto, quando i sensori interni d’allarme sono meno reattivi, anch’io ne avverto la presenza, sento che vorrebbe esplodere e trasfigurarmi in quelle massaie italiane o ebree ritratte nella cultura di massa, ma che popolano ancora il nostro tempo.

Da un lato è terribile e mi addolora, da donna, vedere sprecati talento ed energia in battaglie sterili, di principi che più che indottrinare esasperano, di rancori che si impilano come strati di mattoni. È svilente e umilia la dignità di chi lo subisce ma anche di chi lo mette in atto: redarguire un uomo adulto se ha scelto di mettere al proprio figlio una giacca piuttosto di un’altra, monitorare le sue abitudini alimentari, sgridarlo se non culla il bebè come da manuale.

È come se certe donne non riuscissero mai, quasi fosse una maledizione ancestrale, a sfuggire all’istinto di accudire qualcuno. Dal primo Cicciobello all’ultimo sull’altare, come un virus l’impulso trova casa e prende servizio. Si fa da madri ai figli, ai mariti, agli amici vestendo i panni della crocerossina. Vigilando su tutto e tutti, il controllo del “fuori” fa da rimozione a quello che c’è all’interno. Si presta la propria attenzione agli altri perché spesso il demone che alberga dentro è troppo temibile da farci i conti. Quel demone che crea scontento, rabbia, frustrazione e che lasciato libero di vagare ci farebbe uscire allo scoperto, partire per un viaggio, fare una follia o la scelta sbagliata, dare ai figli una boccata d’aria, lasciare ai mariti il compito di farsi le valigie.

E invece quell’archetipo di madre che tiene sotto scacco i destini di tanti tranne il proprio, benevola con tutti meno che con se stessa, finisce per non essere d’aiuto a nessuno e inquinare la vita degli altri. Il troppo amore non esiste, esiste l’asfissia d’amore che reprime. Il vero amore rende liberi gli altri, dopo se stessi. L’amore non opprime e non modella gli altri a nostra immagine e somiglianza: abbraccia il dissentire poiché è nella diversità il germoglio della crescita.

Uno degli effetti più devastanti di sottomettersi a questa pulsione è perdere di vista il fulcro della coppia: il divertimento. Quella complicità di stare insieme, di ridere intendendosi con uno sguardo, di rifugiarsi in una bolla nella quale nessuno, tanto meno i figli, possono entrare. Bisogna saper trovare e volerlo fortemente, senza arrendersi ai sensi di colpa di presunti schemi estranei alla nostra natura, il tempo di coltivarci come individui e come coppia.

La vita è troppo breve per accudire tutto il mondo. La vita è troppo breve per sacrificarla in crociate domestiche insensate. Se proprio volete dedicarvi a un altro essere vivente, prendetevi un pesce rosso, che il cane è già troppo impegno.

Articolo Precedente

Torino, nasce una mappa dell’odio online: “Un tweet su 7 va contro le minoranze. Sui picchi incide linguaggio politico”

next
Articolo Successivo

Roma, il nuovo regolamento di polizia urbana. Tutti i divieti: dalla musica ai panni stesi

next