Quando stavo con le gambe sgangherate sotto i banchi di scuola – a cui, sono certo, molti di voi mi inviteranno a tornare dopo aver letto queste righe – rimasi colpito da due concetti classici di profondissima giustizia, così semplici e così esatti: il socratico “so di non sapere” e il latino cursus honorum.

Contengono entrambi un meraviglioso principio di crescita, di maturazione, da applicare all’individuo e alla società: il primo custodisce in quattro parole la continua necessità di imparare, l’umiltà di chi vuole capire. L’altro istituisce un preciso ordine meritocratico per passare da un incarico pubblico a un altro premiando, si presuppone, chi vale. Fermiamoci un attimo a riflettere sulla forza che questi due pilastri della società antica possiedono. Ora guardiamoci intorno e ditemi quante schegge ne restano oggi.

Ma i greci avevano previsto anche questo: oclocrazia, la chiamò Polibio, che stima la durata di una democrazia, ovvero d’un saggio governo d’uguaglianza, “finché sopravvivono cittadini che hanno sperimentato la tracotanza e la violenza, che stimano più di ogni altra cosa l’uguaglianza di diritti e la libertà di parola; ma quando la democrazia viene trasmessa ai figli dei figli di questi […] viene abolita e si trasforma in violenta demagogia”. Un inevitabile decadimento, un concetto che nell’Ottocento viene condensato in “tirannia della maggioranza” e che a me pare ritrovarsi nell’odierno “uno vale uno”, pericoloso e utopistico.

Mi spiego meglio: in un mondo ideale, dove tutti hanno pari conoscenze e capacità in ogni campo, “uno vale uno” è un principio meraviglioso. Ma non è così: abbiamo gli stessi diritti e gli stessi doveri – vivaddio! – ma questo non significa che abbiamo anche la stessa altezza, lo stesso colore degli occhi, gli stessi talenti, la stessa esperienza e le stesse capacità. Affinché una società funzioni, bisogna mettere gli ingranaggi giusti al posto giusto, altrimenti “uno vale uno” decade in “uno qualsiasi vale uno”.

Ecco che oggi quest’uno qualsiasi pensa di saperne più di un medico a proposito di vaccini, più di un geologo sulla vera magnitudo dei terremoti, più del sindaco di Amatrice su come si stia ad Amatrice. “So di non sapere” diventa “so di sapere tutto”, fino all’assurda pretesa – e qui vi faccio arrabbiare – di andare in Parlamento non per cursus honorum – per aver quindi assimilato competenze ed esperienze compatibili col governare – ma per aver parlato di sé su Youtube, raggranellando una manciata di voti online attraverso una piattaforma privata.

Il pane lo compriamo da chi segue passo passo l’antica ricetta tradizionale, ma per le decisioni sul futuro della Nazione: prego, rivolgersi a chi fino a pochi mesi fa faceva tutt’altro. Non voglio farne una questione politica e anzi condivido la disperata esigenza italiana di rinnovamento della nostra classe dirigente, ma provo a riflettere sui principi generali di questo rinnovamento.

Gli stessi principi che si applicano quindi anche a chi “possiede” il sapere. Ma lo usa come fosse ignoranza. A quest’Italia spaccata e tifosa piace infatti commentare e azzannarsi. E se alcuni si sentono in diritto di dire la loro su tutto, altri si credono in dovere di bullizzarli facendo pesare la loro maggiore conoscenza. È un’esibizione muscolare di sapere, primitiva nei modi, che anziché animare i dibattiti innalzandone il livello e argomentando le ragioni, ridicolizza e sentenzia i “webeti”. A “uno vale uno” si contrappone “io sono io”. Fine dei giochi, dei discorsi e della libertà di dire la propria idea, magari sbagliando ma quindi, si presume, imparando.

Avere ragione non sempre coincide con avere ragionevolezza. La mia speranza è in chi oggi ha le gambe sotto i banchi, affinché sappia di sapere abbastanza e di valere per quanto merita.

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