di Paolo Bagnoli

L’ interrogativo è vecchio, ma non passato di moda: da Tacito in poi vive nella coscienza collettiva. La memoria serve per il futuro? Diciamo subito: ne siamo ben convinti quanto del fatto che la famosa formula della storia maestra di vita è stata forse tra le più disattese, in ogni tempo, dagli uomini in maniera universalistica. Ritorniamo sulla questione poiché l’anno che si avvia alla chiusura inanella quattro richiami epocali della nostra vicenda nazionale, tutti legati alla ricorrenza segnata dal numero 8.

Il 2018, infatti, ci riporta al 1848, al 1918, al 1938 e al 1948. Quattro date della memoria non riconducibili a quelle delle tante ricorrenze che, naturalmente, si avvicendano.

1. Nel 1848, Carlo Alberto segnò una tappa della tolleranza e della convivenza per i valdesi e gli ebrei.

2. Il 1918 è l’anno della vittoria nella Prima guerra mondiale che, con un prezzo altissimo di vite umane, completò l’assetto territoriale del Paese; l’Italia, purtroppo, perse il dopoguerra con le conseguenze che tutti sappiamo.

3. Il 1938 è l’anno della vergogna, quello nel quale con le leggi razziali si scrive la pagina più buia e infame della nostra storia.

4. Nel 1948, con l’entrata in vigore della Costituzione inizia il cammino della democrazia repubblicana, la storia italiana volta pagina.

Questi quattro passaggi fondamentali nella storia degli italiani dovrebbero essere tenuti insieme quali momenti che – naturalmente nella loro diversità – dovrebbero ammonirci sul significato della presenzialità della memoria nella stagione politica del presente. In fondo ognuno di essi ci dice del valore della convivenza e della centralità che ha la coesione sociale per l’essere stesso dello Stato e del governo delle situazioni sociali da affrontare. Quattro date che sono un invito alla costruzione di assetti di civiltà, tutto il contrario di quanto avviene oggi ove le pulsioni razziste, la guerra sociale dell’uno contro l’altro, un vero e proprio odio civile caratterizzano il governo del Paese.

Il 2018 passerà alla storia con i colori gialloverdi, i colori del cinismo, della rabbia, delle falsità, dell’allontanarsi dalla modernità e di una pericolosissima febbre di acceso nazionalismo che ci porta a sbattere contro l’Europa con l’altissimo rischio di assai aspre ripercussioni sociali. Altro che convivenza, pace, cittadinanza fondata sulla libertà e sulla dignità, nonché concretezza della democrazia. Se crisi istituzionale, crisi sociale e crisi economica dovessero saldarsi la nostra democrazia, peraltro già abbastanza ammaccata – basti pensare agli attacchi virulenti alla libertà di stampa – riceverebbe un colpo dalle conseguenze negative pesanti. Una volta tanto quella che potrebbe apparire come la solita cultura delle ricorrenze dovrebbe essere vissuta quale memoria che serve al futuro, ma il futuro si costruisce a partire dal presente. Esso, piaccia o non piaccia, non è esente dal passato poiché è lì che affonda le sue radici prime.

Con i piedi ben saldi nel presente e preoccupati seriamente per il nostro futuro torniamo però al passato, a Francesco De Sanctis. In un discorso tenuto a Foggia l’11 marzo 1880 il grande critico diceva queste parole: “E il morbo è questo, che abbiamo l’audacia e la violenza dei pochi e l’indifferenza dei molti, questo è lo spettacolo che ci danno i popoli nei tempi della decadenza o della stanchezza. Gli onesti si disgustano. I patrioti si ritirano. La fede nelle patrie sorti s’indebolisce. E in mezzo all’accasciamento e all’apatia elettorale assisti al tripudio osceno delle passioni e degli interessi più volgari”. Cos’altro possiamo aggiungere?

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